Quando il 1° novembre 1993 entrò in vigore il Trattato di Maastricht sembrava che si realizzasse una grande scelta politica, culturale, di civiltà, che aveva coinvolto gli Stati dell’Europa dopo la tragedia della seconda guerra mondiale.
Il Trattato aveva impegnato un’intera classe politica che si rifaceva ai grandi personaggi che erano usciti dal conflitto e avevano impegnato i loro Paesi verso una svolta decisiva nei rapporti tra gli Stati. Non c’era solo l’idea di Altiero Spinelli, ma l’impegno di uomini come Alcide De Gasperi, Robert Schuman, Konrad Adenauer.
Il Trattato, dopo una lunga elaborazione e un grande lavoro comune, fu siglato il 7 febbraio 1992 e coinvolgeva in quel momento 12 Paesi: Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna. Quella firma rappresentava di fatto la conclusione di un discorso avviato nel 1983 in occasione del Consiglio europeo di Stoccarda, quando venne rilanciata l’idea di un’unione politica da affiancare alla Cee.
A ben vedere, Maastricht rappresentava una sorta di cerniera tra le due fasi maggiori dell’integrazione europea: la prima parte, subito dopo la fine della guerra, che aveva creato la Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), terminata negli anni Ottanta, e la Cee (Comunità economica europea). Si parlava di un Trattato basato su tre pilastri fondamentali, ma soprattutto si pensava a una lenta ma sicura integrazione politica, a un reale passaggio politico, a una sorta di confederazione o di qualche altra forma istituzionale, in tutti i casi alla necessità di fare dell’Europa una realtà che si inseriva come grande protagonista economico e geopolitico nel nuovo assetto mondiale.
Dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda, una nuova politica diventa fondamentale nel momento in cui si parla di Unione Europea, che raggruppa oggi 27 Paesi dopo l’uscita della Gran Bretagna. C’è un Parlamento, c’è un Consiglio, una Commissione, una Corte di giustizia europea e la Banca centrale europea, per citare alcune istituzioni fondamentali. Poi, verso la fine degli anni Novanta si crea anche una moneta unica, l’euro, che non tutti i Paesi usano, ma che assume un rilievo mondiale insidiando addirittura il ruolo del dollaro.
Tutta questa sequenza che abbiamo voluto riassumere brevemente, ci porta a una considerazione su quello che potrebbe chiamarsi l’attuale “stato dell’Unione”, per copiare un appuntamento tipicamente americano.
In sintesi, in base alla crisi economica, politica e geopolitica che stiamo vivendo, come possiamo giudicare oggi il cammino dell’Unione Europea?
La considerazione viene spontanea, perché oggi, inutile nasconderlo, l’Ue vive forse il suo maggiore momento di crisi e c’è chi non esclude che la stessa Ue, se non si distacca da alcune scelte, possa anche disperdersi, fare dei passi indietro e non riuscire a ottenere l’integrazione politica.
Si pensi solo a un fatto: De Gasperi morì con il dispiacere che non si era realizzato nei primi anni della nascente integrazione europea un difesa comune. Sembra incredibile invece pensare al percorso solamente di questi ultimi trent’anni, dopo la firma del Trattato di Maastricht. Oggi, tra la crisi economica e il problema drammatico dei migranti, si capisce che la politica, come in altri Paesi del mondo, è stata dimenticata. Ieri Giorgio La Malfa scriveva: “Non basta l’euro. L’Ue governi l’economia”. È uno dei richiami più forti: non esiste solamente la cosiddetta politica monetaria o l’egemonia della finanza. Scrive La Malfa riferendosi alla crisi degli Stati europei: “Servirebbe un secondo strumento da affiancare alla politica monetaria (il riferimento è all’intervento della Bce sul rialzo dei tassi). Servirebbe un bilancio europeo e un ministro del Tesoro europeo. La scommessa del Trattato di Maastricht fu che la moneta unica avrebbe imposto la nascita del Tesoro europeo. Non è stato così. Il problema resta aperto”.
Il richiamo alla politica economica, alla politica quindi, è più che esplicito. Ma in fondo La Malfa, di fronte a questo momento di crisi, non solo economica, fa un richiamo che in molti hanno fatto in questi trent’anni.
Dopo la crisi del 2008 e in particolare la crisi della Grecia, Luciano Gallino, grande sociologo di scuola olivettiana, scriveva: “I governi eletti dai popoli dell’Ue hanno scelto da tempo di fungere da rimorchio al sistema finanziario. Avrebbero dovuto riformarlo dopo la crisi dell’autunno 2008”. Non lo hanno fatto.
Dice ancora Gallino: “Avendolo aiutato a diventare ancora più potente di prima, i governi Ue si trovano ora esposte alle sue pretese. Al momento il sistema finanziario pretende che siano salvate le banche dalla crisi del debito greco, in vista di altre richieste analoghe che prossimamente potrebbero riguardare il Portogallo, la Spagna e l’Italia”.
Aggiungiamo alcune considerazioni che ha sempre fatto l’ex ministro greco Yanis Varoufakis. Nel 2020 ha scritto: “Il Recovery Fund è una grande sconfitta per l’Unione Europea. Contiene un’idea di debito comune, ma è solo una tantum. Di fatto seppellisce gli eurobond”. Ma Varoufakis è critico al massimo con il Patto di stabilità, la politica dell’austerità e la politica finanziaria che sostituiscono completamente la politica e fanno scomparire la politica economica. Per essere precisi, a scanso di equivoci, Varoufakis è un uomo di sinistra, non di destra.
La sostanza che emerge da queste considerazioni comunque è che la politica a cui aspiravano e per cui si erano battuti i “padri” dell’Europa fin dall’ultimo dopoguerra, malgrado tutte le crisi passate in questi anni, non esiste più ed è soggetta solo alle ragioni della politica finanziaria e monetaria.
È a questo punto che fa addirittura impressione l’incapacità europea nell’affrontare la nuova crisi che è esplosa in questi mesi: quella dei migranti che abbandonano soprattutto l’Africa, un continente che è stato un tempo saccheggiato da alcune potenze europee, si pensi solo alla Francia.
Ma a ben pensarci tutto questo non deve affatto stupirci, se guardiamo l’atteggiamento dei vari Paesi dell’Unione Europea.
La ripartizione dei migranti che arrivano dal continente africano è sempre stata affrontata con una certa superficialità e mai con la complessità che comporta.
La sostanza è che il problema migrazione mette a nudo la debolezza dell’Unione Europea che si basa soprattutto sulla politica monetaria e finanziaria, non sulla cooperazione, l’integrazione che dovrebbe cancellare aree di crisi nel continente.
Tra crisi economica ed emergenza che arriva dagli sbarchi, con Germania, Francia e Austria che annunciano di chiudere le porte ed erigere i muri, si vede la pochezza della cosiddetta solidarietà europea, la cooperazione e l’integrazione reale dei Paesi della comunità. È come se si vivesse in uno stadio di ansia perenne e senza una classe politica all’altezza della situazione.
Un ultimo ricordo in questo guazzabuglio impolitico. L’ultimo atto che si ricorda a livello internazionale per i Paesi del terzo mondo risale al 1989, quando Bettino Craxi diventa consigliere speciale del segretario dell’Onu, Perez de Cuellar, per valutare la situazione del debito in quei Paesi, in particolare quelli dell’Africa. Nel 1990 Craxi presenta il suo piano, che viene approvato all’unanimità e che prevede la riduzione del debito e la sua cancellazione in alcuni casi per i Paesi più poveri.
Craxi faceva politica. Perché non se ne fece nulla di quella scelta? Il leader socialista avrebbe dovuto incontrare Di Pietro e Davigo e della sua scelta approvata dall’Onu non se ne fece nulla. Scommettiamo che l’Unione Europea si guaderà bene dal ripescare quel piano?
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