Arrivano dagli Usa, attutiti dalla distanza, dalla confusione e dai preconcetti politici, gli echi di una complessa guerra giudiziaria che potrebbe condizionare la prossima campagna elettorale per le presidenziali del novembre 2024.
Per capirli, però, bisogna prima fare un po’ di chiarezza per il lettore italiano sul sistema giudiziario statunitense. Tre aspetti sono fondamentali.
Il primo è che la giustizia americana è “politica” nel senso più ampio del termine, poiché giudici e procuratori sono tutti di elezione diretta da parte dei cittadini.
Esistono candidati indipendenti, ma di solito tutte le cariche pubbliche – dal preside scolastico al capo dei pompieri di una città, passando appunto per i giudici – sono scelti tra candidati repubblicani o democratici.
L’elettore può votare nella sua maxi-scheda un candidato giudice democratico e un deputato repubblicano, ma di solito vota la “lista” (partitica o, meglio, di schieramento) di tutti i candidati alle diverse cariche di una specifica tornata elettorale. Avremo quindi procuratori democratici o repubblicani ovviamente più o meno solleciti (o sollecitati) ad accusare un avversario politico.
Il secondo aspetto è il termine di “gran giurì” che da noi viene interpretato come una sorta di giuria processuale, mentre invece è solo un gruppo di cittadini – estratti a sorte – che devono valutare se le prove raccolte dall’accusa siano o meno sufficienti per procedere in un’azione penale, un po’ come il Gip in Italia.
Non si entra quindi nel merito delle accuse. L’imputato o i suoi difensori non sono presenti alla seduta e praticamente i “gran giurì” danno sempre l’assenso a continuare nella causa, anche perché nessun procuratore si presenta senza avere in mano almeno degli indizi.
Terzo aspetto fondamentale da chiarire è il termine di “impeachment”.
È l’avvio di un processo a carico di una carica pubblica (ad esempio un presidente) se si ritiene che per gravi motivi debba essere rimosso. Un processo lungo da parte del Congresso e che deve vedere favorevoli sia il Senato che la Camera dei rappresentanti. Mentre nel tempo queste messe in stato d’accusa erano una rarità, oggi – soprattutto quando una camera ha una maggioranza diversa dall’altra – sono diventate un motivo di scontro politico, anche se è ben difficile che un presidente americano venga destituito, perché il quadriennio elettivo scorre veloce.
Più che altro, quindi, è un’arma di pressione e show a beneficio dell’opinione pubblica, come quella avviata a suo tempo dai democratici contro Trump e che intenderebbero avviare ora alla Camera i repubblicani contro Biden.
Nello specifico, contro Trump non si sta ora avviando un impeachment (non è presidente in carica), ma una serie di accuse che potrebbero impedirgli di partecipare alla campagna elettorale.
Di corollario – la notizia è di ieri – la richiesta di un procuratore (democratico) di impedirgli di parlare dei casi giudiziari a suo carico, ovvero di “silenziarlo” sul principale tema della sua campagna elettorale, scatenando la bagarre.
Donald Trump ha infatti reagito subito alla notizia con il suo solito stile: “Il procuratore di Biden, lo squilibrato Jack Smith, ha chiesto alla corte di limitare il 45esimo presidente e principale candidato repubblicano. In pratica io combatto contro una persona incompetente che ha usato come un’arma il Dipartimento di Giustizia e l’Fbi contro il suo avversario e non mi è consentito commentare?”. Segue l’appello agli elettori: “Sono stato incriminato per voi: i democratici hanno utilizzato le forze dell’ordine come armi per prendermi di mira: quello che il corrotto Biden sta facendo è interferenza elettorale al massimo livello”.
Sul fronte repubblicano, infatti, da tempo si accusa Biden di corruzione – direttamente e tramite il figlio Hunter Biden, personaggio di pessima fama – per traffici legati a rapporti commerciali con la Cina e l’Ucraina sui quali l’Fbi sarebbe stato reticente, e in settimana Hunter è stato effettivamente incriminato, ma per uno strano reato marginale legato all’acquisto di una pistola senza aver dichiarato i suoi precedenti di uso di droga.
Un’accusa – convalidata da un gran giurì, ovviamente – che è un “cavallo di Troia” per inguaiare il padre e continuare ad indagare sulla “polpa” dell’inchiesta, ovvero i rapporti commerciali di famiglia quando Biden era il vicepresidente di Obama operando con società-ombra che i repubblicani da tempo accusano di scorrettezze fiscali e politiche.
In questo clima si aspettava in settimana l’avvio ufficiale di una procedura di impeachment direttamente contro Biden avviata dai repubblicani che – alla Camera – contano 10 voti in più dei democratici.
È scontato che al Senato tutto si fermerebbe comunque, ma la mossa sarebbe clamorosa quanto pericolosa, poiché non tutti i repubblicani sarebbero favorevoli e – se il voto del gruppo non fosse unanime – una eventuale sconfitta sarebbe catastrofica per la reputazione dello speaker (ovvero il capogruppo repubblicano) Kevin McCarty e tutto il suo partito.
Dunque tutto viene (forse) rinviato, e le incertezze sono dovute al fatto che nelle prossime settimane il Congresso dovrà votare il bilancio 2024 (sul tema i democratici, senza maggioranza, sono sotto scacco) e alcuni repubblicani pensano di poter così avere più peso contro Biden.
Di sicuro la reazione della Casa Bianca non si è fatta attendere. “I repubblicani della Camera hanno indagato sul presidente per nove mesi e non hanno trovato alcuna prova di illeciti, la richiesta di impeachment è estremismo politico nella sua forma peggiore”.
Battaglia aperta, insomma. E mancano ancora 14 mesi alle elezioni presidenziali…
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