Gianni Vattimo lo conoscevo bene. Apparteneva a quella ricca e felice stagione intellettuale torinese, quando gli intellettuali non si chiudevano ancora nelle Ztl credendo di rappresentare la parte migliore, più intelligente e più morale della società. Quando gli intellettuali erano anzitutto tra loro amici, pur con idee diverse e a volte litigando, ma davanti a un bicchiere di rosso e un piatto di agnolotti. C’erano Vattimo, e Magris, e Davico Bonino, e Beccaria, dietro ai più anziani Barberi Squarotti, e Jacomuzzi Stefano e Angelo, e mio padre, e Bolgiani, Corsini, Lana.
Una stagione felice di uomini aperti, inquieti, ma liberi e rispettosi delle idee e appassionati al loro lavoro. Tocca dirlo, la maggior parte erano stati ragazzi insieme nell’Azione Cattolica, forse delusi poi dalle parate democristiane, ma cresciuti in un umanesimo cristiano nato dai giochi in oratorio, da una giovinezza umile di borgata, da sacrificio e fatica per lo studio e i successi, da letture comuni della grande cultura francese e inglese del primo novecento.
Gianni Vattimo era sì già il pensiero debole, all’inizio una rivendicazione di libertà di pensiero, contro dogmatismi di sinistra e di destra e teocratici. Ma era soprattutto un professore affascinante, brillante, e poi un preside di facoltà, lettere e filosofia, che apriva sempre la porta agli studenti, e aveva simpatia per i poveri ragazzi di Comunione e Liberazione che andavano a proporgli incontri, o il loro mensile, che allora si chiamava Litterae Communionis, e che invano cercavano di vendere sui banchetti all’ingresso dell’università, perché le copie finivano spesso a terra nel fango o pestate o addirittura bruciate, quando si scriveva su muri di Palazzo Nuovo “Cloro al clero”, e Cl era come dire mafia o fascisti carogne.
Ci ha sempre mostrato simpatia per l’intraprendenza, per la testardaggine, per il desiderio vero di un confronto che gli si mostrava, e ne era lusingato, lieto. Più tardi, ha sempre risposto con gentilezza alle richieste di un’intervista, di una parola, nonostante le sue posizioni diventassero sempre più radicali e arrabbiate, e nonostante pian piano avesse perduto la sua tanto agognata libertà di pensiero, accodandosi a teorie politiche lontanissime dalla sua mitezza.
Era un uomo che aveva sofferto tanto, un uomo irrisolto, e solo. Un uomo che per troppo tempo si è sentito sbagliato, e non è stato accompagnato e capito, anche se di amici che gli volevano bene e accoglievano anche le sue mattane ne aveva parecchi. Un uomo interrogato sempre dalla persona di Cristo. Mi è spiaciuto tanto vederlo usato, senza alcuna volontà di comprenderlo, senza conoscere le sue opere d’ingegno, senza rispettare con discrezione la sua intimità combattuta, vederlo trasformato in bandiera di battaglie cui si era accostato per essere ancora vivo.
Professore, le riunioni di facoltà avevano in lei una garanzia. Quell’incontro su Buzzati e il senso dell’attesa in Aula Magna l’abbiamo potuto fare grazie a lei, e ricordo ancora come mi commentò il sì con la sua firma: “siamo uomini e siamo vivi se teniamo aperti la porta al Mistero, come il tenente Drogo, sempre sulla soglia”. Grazie, e sono certa che il buon Dio le darà ora risposte e pace.
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