La Federal Reserve ieri ha lasciato i tassi invariati, come da attese, per la seconda volta dopo giugno; per il 2023 le attese dei membri della banca centrale americana rimangono per un ulteriore rialzo di 25 punti base esattamente come a giugno. Le novità si sono concentrate sulle attese per il 2024: per la fine dell’anno prossimo oggi si attendono solo due tagli rispetto ai quattro attesi a giugno e lo stesso vale per il 2025.
La Federal Reserve ha intenzione di mantenere i tassi alti a lungo; il cambio euro/dollaro ieri sera ha chiuso sotto 1,07 con un netto rafforzamento della valuta americana. Le opzioni sulle obbligazioni statali americane oggi non segnalano tagli fino a settembre 2024; solo tre mesi fa, invece, assumevano quattro tagli nel 2023.
I documenti pubblicati ieri sera dalla Fed e quanto emerso nella conferenza stampa consegnano uno scenario univoco. L’inflazione rimane ben sopra all’obiettivo del 2% e, rispetto alla riduzione degli ultimi mesi, Powell dichiara di “voler vedere che è più di soli tre mesi”; le attese dei membri della Fed, rispetto a quelle di giugno, segnalano un’inflazione più alta nel 2024. Il rialzo del petrolio delle ultime settimane contribuisce a questa prudenza. Il mercato del lavoro, nonostante il recente indebolimento, rimane ancora storicamente forte; le attese sul tasso di disoccupazione nel 2024 migliorano esattamente come quelle sul Pil. In queste condizioni solo una recessione può cambiare il quadro e dare il via ai tagli dei tassi nei prossimi dodici mesi.
È possibile che il mercato debba velocemente arrendersi all’evidenza di una Federal Reserve decisa a tenere i tassi alti nonostante il rallentamento e nonostante le difficoltà dei partner economici dell’America e in particolare dell’Unione europea.
Mentre l’economia europea entra in recessione e la sua industria si ferma, quella americana continua a marciare sostenuta, tra l’altro, da una politica fiscale espansiva di cui il mercato per ora non si preoccupa. Il debito americano ha recentemente sfondato i 33mila miliardi di dollari in aumento di oltre il 18% annualizzato rispetto a giugno. Per quanto scassati siano i conti pubblici americani, questa evidentemente la tesi degli investitori, sono comunque meglio di quelli di un continente che è entrato in una crisi strutturale di cui non si vede la fine.
L’Europa alle prese con un’inflazione ancora molto superiore al 2% subisce il rafforzamento del dollaro e tassi di interesse che non si può più permettere. Se la Banca centrale europea decidesse di non seguire quella americana, cambiando politica monetaria prima, andrebbe incontro a un indebolimento dell’euro in una fase di rialzo delle materie prime, petrolio e gas incluse, e con una crisi energetica che è solo parzialmente rientrata.
È complicato tenere il ritmo imposto dagli Stati Uniti in una fase di crisi industriale strutturale, senza materie prime proprie e con rapporti politici e commerciali fragili con i paesi produttori. Se l’Europa non segue gli Stati Uniti, costretta dalla sua crisi economica, si trova a dover gestire l’indebolimento del cambio, deflussi di capitali e probabilmente l’esplosione della volatilità finanziaria interna e degli spread con tutte le loro conseguenze politiche interne all’Ue. Se invece segue gli Stati Uniti è costretta a entrare in recessione prima e peggio degli alleati americani.
Non c’è una soluzione indolore di breve periodo e questo non è nemmeno il problema più grave. Il problema vero è che più passano le settimane, più diventa chiaro che l’élite europea non ha consapevolezza di quale sia la portata delle sfide. L’Europa litiga con il suo principale mercato di esportazione, la Cina, e spinge, unica nel globo, su una rivoluzione green che appare un lusso per ricchi, mentre gli altri, è stato il caso ieri dell’Inghilterra, scendono a miti consigli sugli obiettivi green per evitare di seppellire il potere d’acquisto dei consumatori e la competitività delle imprese. L’Europa è sola e senza idee. Dalla Federal Reserve per ora non arriveranno aiuti.
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