Giorgio Napolitano fu scelto da Palmiro Togliatti tra i giovani più brillanti della borghesia dell’Italia appena liberata. Lo aveva anticipato nel suo discorso al Modernissimo, appena rientrato a Napoli nel 1944, che la trasformazione del Pci da esercito clandestino a partito di massa doveva passare attraverso alcune scelte drastiche, come quella di aprirsi a forze giovani e nuove, che non fossero coinvolte con la Resistenza e in grado di aprire un ponte con le classi dirigenti del Paese, almeno con quelle meno compromesse con il fascismo.
Il giovane Napolitano aveva trascorso gran parte della guerra a Capri, nella villa di famiglia. In quegli anni non solo aveva avuto tempo per fare studi approfonditi e per imparare un inglese fluente, che gli sarà molto utile negli anni a venire, ma ebbe soprattutto la possibilità di coltivare relazioni importanti nella comunità culturale napoletana e internazionale che frequentava già in quegli anni l’isola azzurra, come Raffaele La Capria e Curzio Malaparte. Ne rimase così coinvolto che, finita la guerra e rientrato in città, sperò in cuor suo di intraprendere addirittura una carriera da attore drammatico.
Ma la politica ebbe il sopravvento. Affidato alle cure di Salvatore Cacciapuoti – l’operaio napoletano di cui i vertici del Pci si fidavano ciecamente – il giovane rampollo dell’agiata famiglia napoletana fu avviato alla carriera di dirigente e funzionario di partito. Per poco, ma il futuro presidente della Repubblica dovette fare la sua gavetta. Gli toccò così di dirigere la federazione di Caserta in Terra di Lavoro. Napolitano, nonostante la sua propensione all’attività culturale, svolse quel lavoro come sempre con serietà. I vecchi militanti del partito lo ricordano giovane segretario fare con passione un lavoro molto umile e al di sotto delle sue reali capacità. E per questo fu molto amato. Gli uomini, i comunisti in particolare, adorano i migliori predestinati che eseguono con diligenza i loro compiti. Napolitano fece tesoro di questa esperienza, che gli fruttò una rielezione certa per decenni nella circoscrizione elettorale di Napoli-Caserta, grazie a un vasto consenso personale mai scalfito negli anni.
Napolitano era abituato a ben altri agi delle scarne sezioni di partito. Cresciuto nella dimora di famiglia al Monte di Dio, nel cuore della città, a pochi passi da Palazzo Reale dove la famiglia aveva accesso alla Corte, aveva ricevuto sicuramente negli anni dell’infanzia una formazione severa – a tratti aristocratica – che non lo abbandonò mai, neanche nella vita trascorsa a servire il partito e a svolgere con continuità un lavoro a contatto con la parte più popolare e spesso più povera del Paese. Ma non per questo fu meno amato di altri dirigenti.
Finito l’apprendistato ed eletto parlamentare nel 1953, Napolitano fece il suo ingresso a Botteghe Oscure. Prima la responsabilità della politica culturale, poi le politiche economiche. La sua figura di meridionalista fu sempre più spesso associata a quella di Giorgio Amendola. Gli anni 60 sono per i comunisti italiani anni difficili, il primo centro-sinistra non solo ha causato la rottura del rapporto storico tra Pci e Psi, ma coincide con una fase di tumultuoso sviluppo economico, di crescita e di benessere diffuso. Il Pci vede crescere il suo patrimonio elettorale nei grandi centri industriali, ma riduce la sua presenza nelle altre aree del Paese, a cominciare dal Sud, diventato il grande serbatoio di voti democristiani.
Napolitano in quegli anni vede insidiare la sua posizione di predestinato dall’arrivo ai vertici del partito di un silenzioso giovanotto sardo, anche lui di ottima famiglia, che ha tra i suoi meriti quello di aver costruito una fortissima organizzazione giovanile, la Fgci, ma anche di apparire agli occhi degli uomini dell’ortodossia comunista più affidabile. Era Enrico Berlinguer. Il rinnovamento iniziato da Togliatti dopo il suo rientro in Italia si era abbondantemente fermato sugli scogli della guerra fredda. L’invasione dell’Ungheria nel 1956 aveva fatto il resto, rafforzando di fatto la vecchia guardia intorno a personalità della tempra di Pietro Secchia.
Tocca a Luigi Longo, partigiano piemontese, riprendere il percorso avviato a suo tempo dal “Migliore”, dopo la sua morte nel 1964. Ma il definitivo passaggio generazionale si identificò con il dualismo nato tra i due giovani pretendenti al trono. Il conflitto era ormai palpabile e quando fu necessario scegliere un vicesegretario che affiancasse Longo colpito da un ictus, la scelta cadde su Berlinguer, che divenne ufficialmente segretario nel 1972.
Le differenze tra i due leader comunisti erano tante, ma la ferrea disciplina ancora imperante costrinse Napolitano a far valere le sue posizioni solo nelle riunioni a porte chiuse della direzione nazionale. Del resto la politica di unità nazionale nata dall’idea di Berlinguer di un grande compromesso storico tra i partiti protagonisti della resistenza espressa dopo il golpe cileno, produsse di fatto – almeno fino al 1980 – un patto tra i due e una convergenza unitaria di cui il partito si giovò parecchio: Berlinguer garantiva l’elettorato di sinistra più profondo che l’alleanza con la Dc non avrebbe mai causato il tradimento dei principi di fondo del socialismo, Napolitano doveva invece garantire le classi dirigenti del Paese che potevano fidarsi del Pci.
Sul piano internazionale a Berlinguer toccò il compito più difficile, quello di separare le sorti dei comunisti italiani dal blocco sovietico. Anche a rischio della sua stessa vita. A Napolitano invece toccò intessere la rete di relazioni in Europa – che poi divennero il suo vero grande punto di forza – costruendo una profonda amicizia con tutte le forze socialdemocratiche europee. Forse sono proprio questi gli anni in cui Napolitano matura la sua idea di riformismo per l’Italia. La sua ferma convinzione che non c’era alternativa per il Pci che riprendere il solco del socialismo europeo.
Quando Berlinguer muore nel 1984 lascia però un partito molto diverso da quello che avrebbe voluto Napolitano, ormai marginalizzato dai più giovani che individuarono – anche grazie alla vecchia guardia che mai avrebbe ceduto il partito al leader riformista – in Achille Occhetto il successore del segretario scomparso tragicamente. Fu dunque inevitabile che dopo il crollo del muro di Berlino e la decisione di Occhetto di imprimere una svolta storica abbandonando il nome di “Partito comunista”, ciò avvenisse in nome di una linea diversa da quella che Napolitano si era immaginato. Neanche in quel frangente il principale partito della sinistra italiana accettò l’idea di dover scegliere senza ulteriori indugi di aderire al socialismo europeo.
Gli anni Novanta furono anni difficili per Napolitano, a cui toccò, in piena Tangentopoli, dopo l’elezione di Scalfaro alla Presidenza della Repubblica, prendere il suo posto come presidente della Camera. L’elezione alla terza carica dello Stato segnò un punto di cesura con la vita precedente e diede inizio al Napolitano uomo super partes, figura che si identifica con le istituzioni, ne difende lo spirito costituzionale, interpreta e in alcuni casi reinterpreta il difficile equilibrio dei poteri. Libero da legami di partito, nasce così un nuovo corso della sua vita che lo conduce a diventare prima ministro degli Interni del governo Prodi nel 1996 per poi essere eletto – dopo una parentesi di una legislatura a Bruxelles – presidente della Repubblica nel 2006.
Sono anche gli anni in cui Napolitano riscopre le sue origini e con un lavoro certosino – fatto di centinaia di visite – riconsolida il suo rapporto con Napoli. Ama incontrare i vecchi compagni ma soprattutto tutto ciò che di nuovo si muove nella città che sta rinascendo. Offre il suo sostegno ai sindaci Bassolino e Rosa Russo Iervolino. Mette il suo nome su progetti come la Città della Scienza e la nuova Bagnoli.
Sui 9 anni trascorsi al Quirinale si continuerà a discutere a lungo, essendo un periodo in cui Napolitano si è assunto la responsabilità di diverse scelte difficili. In ogni caso, il suo ruolo determinante ha fatto storcere il naso a parecchi, che hanno sempre immaginato il ruolo del presidente della Repubblica come quello di un notaio e non di facitore di “maggioranze” e di continui richiami all’esecutivo. Il modo di esercitare il potere di Napolitano non è mai andato oltre quello che è chiaramente detto nella Costituzione. A riprova della sua onestà ed equilibrio andrebbe citato Pier Luigi Bersani, che dopo l’incertezza del risultato elettorale del 2013 non ricevette alcun trattamento di favore.
Il suo rammarico più grande fu quello di non vedere compiuto sotto il suo mandato quella riforma costituzionale tanto agognata e fallita per colpa dell’eccesso di protagonismo di Renzi, che viziò negativamente l’esito del referendum del 2016. Ma il suo dolore più forte era per Napoli, per la città che lo aveva visto crescere e che ormai non riusciva più a visitare. Racconta Ranieri – uno dei pochi che è rimasto vicino al vecchio leader – di aver colto nel suo ultimo incontro con il presidente una commozione speciale per la città che non ha mai smesso di amare e che ha cercato di aiutare in tutti i modi. Non sarà facile capire quanto sia stato determinante Napolitano nelle vite di ciascuno di noi e per la storia del nostro paese. Questo compito risulta davvero complesso davanti ad una eredità così vasta. E senza lasciare un erede.
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