Il decennale Usa ha toccato il tasso psicologico del 4,50%, massimo dall’ottobre 2007. Qualcosa come 20 punti base in 24 ore. Il tasso fisso benchmark per il mutuo a 30 anni ha toccato il massimo a 52 settimane, un bel 7,6% e il massimo dal dicembre 2000. Il Treasury a 2 anni porta un rendimento del 5,15%, il massimo dal luglio 2006 e 500 punti base in più dall’agosto 2021. Tutta colpa di una Fed tornata falco, quantomeno nelle intenzioni? Magari no. Magari c’è dell’altro. Magari, anzi, trattasi esattamente del contrario.
E se quel movimento sugli yields dipendesse non dalla prezzatura di una prosecuzione rigorista, bensì da quella anticipatoria e precauzionale della pausa che giocoforza seguirà a breve? Ovvero, il mercato – quello vero e che si dice la verità, certamente non quello che finisce sui giornali – teme per quanto tempo la Fed dovrà stare ferma e, soprattutto, della spesa a deficit che verrà elargita a piene mani in quell’arco temporale? Guardate il grafico: nel momento successivo alle parole di Jerome Powell, 440.000 opzioni call sull’oro si sono palesate sul mercato. Massimo da marzo.
Cosa dobbiamo pensare, forse che chi investe sta scommettendo sulla possibilità sempre più probabile di un clamoroso policy error della Fed stessa? Oppure, paradossalmente, la pausa che seguirà all’ultimo rialzo (al netto della variabile Covid che comincia a montare) viene vista come il vero detonatore di crisi strutturale, poiché giocoforza testimone di un ritorno ai sostegni a pioggia, più o meno palesi?
D’altronde, la realtà è ben diversa da quella che viene proiettata sul muro della caverna. Certo, i protagonisti sono gli stessi. Ma una cosa sono i profili delle ombre, altre le espressioni dei volti. Quei rendimenti sui Treasuries parlano chiaro: un movimento di quel genere, così violento, certamente non può essere figlio solo dell’ennesima minaccia della Fed. La quale, ora, si riunirà il 31 ottobre e 1 novembre prossimi. Halloween, una coincidenza che fa pensare. Sarà dolcetto o scherzetto per il mercato? Ma, soprattutto, quanto durerà la pantomima, ancorché questa volta declinata in lugubre teatro dell’orrore invece che in Festival degli unicorni arcobaleno? Strano: di fatto, la scelta di una data per così dire a cavallo rimanda tutto a un’ultima riunione di metà dicembre, quella di chiusura 2023. Di fatto, un Fomc in meno. E anche la Bce, salterà novembre. Ma guarda. L’idea stessa che, a fronte di quegli yields, il mercato ancora non abbia deciso fra recessione o soft landing, poi, parla chiaro: il paradigma è ribaltato. Non contano più i dati macro, bensì il grado di resistenza all’assenza di sostegni, liquidità e iperattivismo delle Banche centrali.
La Bank of Japan ieri ha mantenuto i tassi fermi. E la politica di controllo sulla curva dei rendimenti diligentemente in vigore. Nonostante le continue incursioni al rialzo del decennale. Siamo nel pieno di uno stress test. Globale. E il nostro Btp non è affatto da ritenersi un’eccezione. Anzi: in seno all’Eurozona, il ruolo da cavia di laboratorio gli si addice. Pare esserne sempre più convinto il ministro Giorgetti, costretto a sperimentare la tensione sottotraccia che si innesca quando il nostro decennale benchmark supera quota 4,50%. Ovvero, quanto accaduto giovedì.
E che il Governo paia aver capito che la favoletta di Lampedusa come ombelico problematico del mondo abbia il fiato corto e vada bene per consessi da operetta come l’Onu, lo dimostra lo strabismo decisionale in atto. Da un lato, stretta sugli affitti turistici: oltre i due appartamenti, si diventa automaticamente imprenditori. Stangata, proprio sul comparto che aveva gonfiato il Pil del primo trimestre insieme a quel superbonus che scopriamo aver totalmente annullato ogni risparmio duramente ottenuto sul computo del deficit. Bravo Conte, bravo Draghi. Contemporaneamente, una bella sanatoria su scontrini e fatture farlocche, tanto per ingraziarsi i commercianti. E nemmeno a dirlo, nuovo rinvio per il mercato libero energetico e proroga del bonus bolletta.
Come mai, scusate? Non eravamo diventati indipendenti dalla Russia grazie all’accordo con l’Algeria e gli stoccaggi al 90%? Altra balla di palazzo Chigi che si sta sciogliendo come neve al sole. Ma il meglio arriva dall’accordo anti-inflazione raggiunto da ministero del Made in Italy (rigorosamente col nome in inglese) e Grande distribuzione (GDO) e filiera agro-alimentare. Il 28 settembre firma in pompa magna a palazzo Chigi e dal 1 ottobre, tre mesi di prezzi scontati fino al 10% su migliaia di prodotti in centinaia di punti vendita dei principali marchi.
Ora, fino al 10% può voler dire anche soltanto 2%. O 5%. Ma, soprattutto, ci dice che i due mesi di trattative intercorsi prima dell’annuncio sono stati utilizzati dalla GDO solo per calcolare quanto riesce ad assorbire sui costi vivi attraverso le normali offerte che tutti i supermercati praticano in maniera strutturale per i possessori di tessera fedeltà. Di fatto, quel 10% (massimo) di sconto accettato dal Governo per il suo spot elettorale permette ai grandi del settore di ampliare la gamma rispetto alla media dell’offerta senza di fatto patire alcuna perdita. In compenso, di colpo e in controtendenza, i contagi da Covid sono passati dal +44% della scorsa settimana al +17% del dato comunicato ieri. Un netto calo, giustificato forse dal fatto che un Governo anti-restrizioni non può permettersi anche lo spread elettorale del ritorno delle mascherine e di una nuova campagna vaccinale. Altrimenti, addio sondaggi in vista della Europee. E poi, stante i tagli alla sanità, c’è poco da allarmare il comparto. Anzi, meglio parlarne il meno possibile. Almeno finché il virus lo consente.
Ecco la situazione, signori. In America come in Italia. Un colossale gioco di specchi. Attenzione, però. Il finale di Profondo rosso ci insegna che è meglio prestare molta attenzione alle immagini che si possono vedere riflesse.
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