Entro giovedì conosceremo il quadro di riferimento della prossima legge di bilancio che, ormai è quasi un luogo comune, sarà un esercizio di equilibrismo finanziario. Secondo alcune anticipazioni rilanciate dall’agenzia Reuters, la Nadef, Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, sconterà due peggioramenti rispetto alle previsioni per il prossimo anno pubblicate in primavera: la crescita e il deficit pubblico. In altre parole le due variabili chiave per impostare la politica economica.
Il prodotto lordo che avrebbe dovuto aumentare dell’1,5% sarà indicato tra l’1,1% e l’1,2%, in realtà si tratta di un obiettivo programmatico perché al netto della prossima manovra di bilancio la dinamica del Pil andrebbe sotto quota uno, tanto che l’Ocse ha stimato più 0,8% cioè la stessa media percentuale con la quale si dovrebbe chiudere il 2023. Se pensiamo a come è andato il 2022, con una crescita del 3,7% confermata dagli ultimi calcoli dell’Istat, possiamo capire quanto sia stata brusca la frenata cominciata nel secondo trimestre di quest’anno.
Il disavanzo pubblico dovrebbe restare entro il 4% per il 2024, ma qui davvero sembra un desiderio più che una previsione, perché il deficit quest’anno si attesta sul 5,5%. Ciò vuol dire che non solo non c’è spazio per nuove manovre espansive, ma sarà difficile confermare gli impegni già presi e da confermare, primo tra tutti il taglio del cuneo fiscale (10 miliardi allo stato attuale).
Pesa sul peggioramento dei conti il superbonus edilizio al 110%. La cifre finora sono state più che mai ballerine, si è arrivati a calcolare 150 miliardi di euro (così ha detto Giorgia Meloni) mentre si sente parlare con insistenza di qualcosa attorno ai 100 miliardi. Può darsi che sia così, ma bisogna anche sottrarre gli introiti che vanno allo Stato con l’Iva e l’Irpef. È scoppiata poi una polemica che ha coinvolto il ragioniere generale Biagio Mazzotta, il quale a sua volta aveva dato i propri numeri: nell’ottobre scorso aveva messo in guardia il Governo appena insediato che il provvedimento avrebbe creato un buco di 37,7 miliardi mettendo insieme anche il bonus facciate. L’Istat ora stima che l’anno scorso l’ammontare dell’incentivo è stato pari a 54 miliardi pesando sul deficit per il 2,8%, ciò ha più che annullato il lieve miglioramento (0,2% su un indebitamento netto pari all’8%).
La vera resa dei conti riguarda come si chiuderà il 2023, l’anno del rallentamento, e come si potrà ripartire nel 2024. Il rialzo dei tassi porta di per sé un aggravio sul finanziamento del debito (ci sarà bisogno di 42 miliardi di euro oltre i 300 miliardi da rinnovare) che tornerà ad aumentare a causa della più debole crescita. Sarà necessario fare attenzione al giudizio dei mercati, cioè di chi compra il debito italiano, anche perché la Bce, che ne possiede circa il 30%, ha smesso di acquistarne ancora. E lo spread a lungo stabile è tornato a salire (184,5 punti base).
L’inflazione si mostra più resistente del previsto e ciò spingerà la Bce a mantenere i tassi elevati se non proprio ad aumentarli ancora. Il costo del denaro sta spingendo le imprese a rinviare gli investimenti e le famiglie a tenere i risparmi al riparo anche nei conti correnti che non fruttano nulla. Tutto ciò riduce la domanda interna, mentre quella estera manca di spinta, con la Germania in stagnazione e la Cina imballata.
Un quadro che costringe a compiere scelte drastiche. Il ministro dell’Economia ne è consapevole. Intervenendo venerdì al Cnel, ha detto basta sussidi a pioggia e ha pronunciato una parolina che finora non si era sentita sulla bocca dei ministri, dei sindacati, dei partiti di opposizione: produttività. “Ogni genere di invenzioni pur di spendere denaro pubblico e sussidiare qualcuno o qualcosa” s’è rivelata “densa di conseguenze nocive”. Invece, occorre “un coerente disegno di riforma dell’economia che ne aumenti la produttività”.
Finalmente. È questo il nodo mai sciolto: l’Italia, che pure ha compiuto un balzo al di là delle aspettative dopo la pandemia (l’Istat ha portato la crescita del 2021 all’8,3% invece del 7% calcolato in precedenza), continua a restare indietro rispetto ad altri Paesi non solo nella dinamica quantitativa del Pil, ma soprattutto nella produttività, la variabile decisiva affinché possa aumentare i redditi degli italiani.
Concentrarsi su ciò che aumenta la produttività è la via migliore per contrastare le spinte recessive. Ciò vuol dire rilanciare il sostegno agli investimenti innovativi tipo Industria 4.0, che ha funzionato, e puntare su un taglio al cuneo fiscale (“la priorità numero uno”, ha ribadito Giorgetti) se possibile più consistente del semplice rinnovo di quel che è stato già concesso. Per l’uno e per l’altro occorrono risorse, altre serviranno per proteggere i redditi più bassi. Ed è finita qui.
Sul tavolo del ministro giacciono richieste per almeno 50 miliardi di euro rispetto ai 10-13 disponibili. Prevediamo che Giorgetti dirà molti no. Sarà sostenuto da Giorgia Meloni, già pressata dal suo partito affamato di consensi? Lo appoggerà Matteo Salvini, che è tra quelli che più battono cassa?
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