Se molti e profondi sono stati gli esiti costituzionali della lunga presidenza di Giorgio Napolitano, su due aspetti essenziali vogliamo qui soffermarci. È stato il primo capo dello Stato ad accettare la rielezione. Al di là delle ragioni di questa scelta, Napolitano ha rotto una consolidata tradizione, aprendo così la strada alla rielezione dei suoi successori. Un’eventualità che, subito dopo, si è verificata con Mattarella. E con effetti assai rilevanti: il settennato non è più un fattore fisso nel funzionamento della forma di governo e l’azione del capo dello Stato sarà sempre e inevitabilmente condizionata dall’ipotesi, ormai concretamente realizzabile, della rielezione. Se poi si considera che la rielezione presidenziale non incontra alcun limite costituzionalmente stabilito, un qualche ripensamento su questo aspetto sembra senz’altro opportuno.
È stato, poi, il primo capo dello Stato a elaborare e attuare una potente strategia – politico-istituzionale e comunicativa – volta a collocare la sua figura, e conseguentemente l’organo rappresentato, al vertice sostanziale dello Stato. Napolitano si è posto costantemente, e anche pubblicamente, al centro delle vicende politiche, nazionali e internazionali, esercitando i poteri presidenziali con notevole intensità. Talora sino ai limiti estremi e a volte con tratti così innovativi da essere non soltanto discussi e non da tutti condivisi, ma anche particolarmente controversi.
E allora ben si comprende perché, in questi giorni in cui si commemora la scomparsa di Napolitano, si richiama la definizione di “Re Giorgio” così come quella sulla “Repubblica del presidente” che ne è scaturita. Definizioni che sintetizzano, seppure in modo immaginifico, la concretizzazione di una progettualità che Giorgio Napolitano non ha in alcun modo nascosto. E le voci critiche che pure si sono sollevate non sono state sufficienti ad opporre un argine efficace rispetto all’evoluzione del regime parlamentare che è ormai divenuto, come si è detto, “sotto tutela presidenziale”.
Questo esito, non vi è dubbio, è stato favorito dal peculiare contesto storico nel quale si è sviluppata la lunga presidenza di Napolitano. Del resto, quando si vuole misurare la concreta rilevanza assunta da ciascuna presidenza, un fattore decisivo è fornito dalla forza, dalla stabilità e dalla capacità di resilienza che sono state effettivamente presenti, e quindi realmente dimostrate, nel circuito “opinione pubblica-partiti-parlamenti-governi” con il quale ciascun capo dello Stato si è dovuto di volta in volta confrontare. È pure probabile che proprio la diffusa e, anzi, crescente debolezza del panorama circostante – soprattutto nei partiti e nei titolari dell’indirizzo politico (governo e parlamento) – non abbia consentito di portare a buon fine l’obiettivo conclusivo di Napolitano, quello cioè della riforma delle istituzioni.
Si trattava, come noto, di un obiettivo più volte indicato dallo stesso Napolitano, e poi ribadito con vigore nel discorso pronunciato al momento della sua rielezione. Ma la gestione fallimentare del referendum costituzionale, svoltosi nel dicembre 2016 sulla “riforma Renzi”, ha segnato la fine del “big dream” di Giorgio Napolitano, che aveva già rassegnato le dimissioni nel gennaio del 2015.
Se un insegnamento può allora trarsi, è che non basta un Presidente dalla statura eccezionale: in assenza di forze politiche bel salde nel Paese, e senza un Parlamento capace di agire e di farsi riconoscere come forte e autorevole, nessuna riforma istituzionale può essere davvero ipotizzata, correttamente perseguita ed efficacemente realizzata.
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