Ieri nel tardo pomeriggio il rendimento del decennale benchmark italiano è salito al 4,72% dal 4,65% della chiusura precedente. Il bond a 100 anni dell’Austria aveva appena segnato un calo nel prezzo di un altro 2,5% e viaggiava attorno a 63,3 centesimi sull’euro, minimo storico dall’emissione. Benvenuti nel mondo che finge di non guardarsi attorno. In compenso, il rischio più grande appare non tanto quello di fissare il dito e non la Luna, bensì di perdere tempo scrutando l’orizzonte, quando la falla che potrebbe generare il Titanic sta già sotto i nostri piedi.
Date un’occhiata a questo grafico: nonostante le emissioni di debito previste per quest’anno – oltre 500 miliardi di euro di controvalore – rappresentino un record assoluto per il Tesoro tedesco, lo stesso proprio ieri ha comunicato un taglio delle aste per 31 miliardi di valore nel quarto trimestre di quest’anno, numero che unito alla sforbiciata già annunciata per il trimestre in corso segna un -45 miliardi rispetto alle previsioni.
La ragione? Minore necessità di sostegno a cittadini e imprese contro il caro-energia. Perché lo scorso anno Uniper è stata salvata e nazionalizzata e, come denunciato dagli ucraini, ora ha utilizzato una consociata di Gazprom per aggirare le sanzioni: gas russo a basso costo per i tedeschi quest’inverno. Ma questo puoi farlo se parti da una ratio debito/Pil a 60%. Non al 130%. Ma c’è di più. E lo mostra questo secondo grafico: i prezzi degli immobili in Germania stanno letteralmente crollando al ritmo più rapido di sempre. Tradotto, la Bce col rialzo dei tassi sta sgonfiando la bolla immobiliare generata dal denaro a pioggia e dai tassi a zero del ciclo di Qe pandemico.
Ecco perché il nostro decennale benchmark è in ebollizione. Non prezza rimpasti di governo, bensì prezza il roll-off dei titoli a bilancio. E un possibile regime di tassi alti più a lungo. Il problema che ancora non ignoriamo? Semplice. Il superbonus ora passa da 110% a 90%, ma ha letteralmente devastato il deficit del 2022, azzerando totalmente la riduzione garantita dall’aumento delle stime di crescita. A loro volta, dopate proprio da edilizia e turismo. Ora la Nadef deve creare i prodromi di un deficit sotto il 4%, almeno stando al wishful thinking del Mef. Ma se quel trend tedesco dovesse innescare una reazione a catena sull’intero comparto dell’Eurozona, quanto saranno esposte le banche? Quanti default di società dovremmo prezzare, incluse le ovvie inadempienze creditizie destinate a diventare Npl? E quanto sarà costretto a garantire lo Stato per evitare un effetto Zapatero, stante il livello di doping cui si è sottoposto il comparto?
Garanzie da escludere in sede di Patto di stabilità, magari presentandole come spese per investimenti? Nebelwand. In tedesco significa cortina fumogena. Capito a cosa servono le baruffe chiozzotte in atto fra Berlino e Roma sulle Ong? E attenzione a sottovalutare le variabili più estreme.
Mentre l’inversione della curva di rendimento fra Treasuries Usa a 2 e 10 anni toccava -60 punti base, in un’intervista con Times of India, il numero uno di JP Morgan pareva voler mettere in guardia il mondo del worst case scenario che intende ignorare. Ovvero, un tasso benchmark della Fed al 7%. Ora, la questione è seria. Non fosse altro perché parliamo dell’uomo che – non più tardi di quattro anni fa – ha costretto la stessa Banca centrale Usa a un rocambolesco ritorno in campo dopo 10 anni di panchina e tassi col pilota automatico. Qualche miliardario spostamento di riserve estivo, tanto silenzioso quanto sistemico e alla metà di settembre del 2019 la crisi repo era servita. Sei mesi di aste trisettimanali, un’alluvione di liquidità senza precedenti. Tanto più storico perché, nelle dichiarazioni tranquillizzanti della prima ora, quella facility avrebbe dovuto restare attiva solo due settimane. Durò fino all’aprile 2020, quando passò il testimone della free money ai sostegni pandemici. E ora?
Date un’occhiata a questo terzo grafico per capire quanto le parole del boss di JP Morgan contino: vuoi vedere che siano alla vigilia di un altro scossone bancario negli Usa, in modo che le BIG 4 possano drenare anche un po’ di depositi alle piccole banche, le stesse che – esattamente come accadde con la facility repo – stanno continuando imperterrite a nutrirsi di un centinaio di miliardi di linee di sostegno emergenziali, le stesse messe in piedi in fretta e furia lo scorso marzo con la crisi di SVB?
Anche in questo caso, le premesse erano per un sostegno di breve termine. Ormai siamo a ottobre. Ma c’è dell’altro, decisamente di più strutturale, da cogliere tra le righe nelle parole di Jamie Dimon. Ovvero, quanto la politica monetaria della Fed è indirizzata alla lotta contro l’inflazione e quanto al sostegno dello status quo sempre più traballante? Quanto la Banca centrale opera per la collettività e quanto per il Sistema? Cosa accadrebbe al mondo se, realmente, la Fed puntasse a quell’obiettivo, a quel 7%? Un tantrum. Decisamente più drastico di quello innescato da Ben Bernanke con il suo blitz di fine Qe.
Il mondo, inteso come Sistema, ne ha bisogno? Serve forse un reset di quelli da libri di storia e non più meramente ciclico dopo troppo Boom&bust da iper-indebitamento? Guardate ora questo ultimo grafico e mettete in prospettiva: l’andamento del mercato azionario Usa post-Lehman cosa ci dice, se raffrontato a quello mondiale ex-Wall Street?
Forse che la scelta di lasciar fallire Lehman, presa dalle Big 4 il 13-14 settembre 2008 nella sede messa gentilmente a disposizione dalla Fed di New York, è stata strumentale a un reset che somigliava a un rehab emergenziale per evitare overdosi e cirrosi a catene? Quanto Lehman era percepita come “problema americano” con i suoi subprime? Molto. Moltissimo. Quanto il Sistema Usa ha guadagnato da quel problema? Ancora di più. E la Fed ha operato meramente da sicario. Non certo da mandante. Quello era un altro. Meglio non sbagliare nemmeno una mossa, insomma. Perché siamo al tutti contro tutti.
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