Dopo la crisi economica provocata dalla pandemia e che ha provocato l’arresto di molte attività, il nostro Paese ha avuto una ripresa che è andata oltre le migliori aspettative. La crescita economica, trainata dalle medie imprese votate alle esportazioni e dalla ripresa turistica, ha dimostrato che il complesso della nostra economia ha una resistenza e una capacità di reazione che supera quanto le classificazioni internazionali ci attribuiscono.
La ripresa economica ha portato anche a una crescita dell’occupazione, in particolare stabile. La diminuzione dei lavoratori autonomi è stata ampiamente compensata dalla crescita dei dipendenti e con contratti a tempo indeterminato.
Tutto bene quindi? Neanche per sogno. Il tasso di occupazione complessivo rimane ancora di quasi 10 punti al di sotto del tasso di piena occupazione fissato a livello europeo. Sono rimasti intatti i problemi strutturali del nostro mercato del lavoro: gli squilibri nord-sud, con un Mezzogiorno in cui i dati occupazionali e di reddito sono peggiorati, e il tasso di occupazione di giovani e donne. Questi ultimi due squilibri pesano in modo determinante sul tessuto sociale. È dalla difficoltà del passaggio scuola-lavoro che viene l’anomalia numero di giovani che ingrossano il numero dei disoccupati e dei giovani che non studiano, né lavorano. Il basso tasso di occupazione femminile contribuisce alla diffusione della povertà misurata sui nuclei famigliari e alla denatalità.
La classica risposta a una situazione del genere sarebbe quella di proporre una crescita economica, qualunque sia, per assorbire i bacini di disoccupazione, al massimo qualche contributo fiscale a sostegno di categorie più deboli. C’è oggi invece qualcosa che sta cambiando il mondo del lavoro. La discussione che si è aperta in diverse sedi mette a fuoco un tema più generale che porta ad affrontare il senso del lavoro oggi. I fenomeni rilevabili e misurabili, a partire dal mismatching formativo e la caduta demografica, spiegano solo in parte il mutamento del rapporto fra giovani e lavoro.
Un’offerta di lavoro scarsa può certamente fare tesoro della situazione al fine di cercare le condizioni di lavoro migliori. Ma ciò riguarda quanti hanno competenze allineate con i cambiamenti tecnologici in corso. E non c’è comunque posto per tutti in collocazioni che rispondono alla domanda di lavorare meglio e di avere un salario adeguato al costo della vita.
Scelta di andare all’estero per cercare collocazioni migliori, aumento delle dimissioni per trovare un lavoro più corrispondente alle proprie aspettative, ma anche aumento di chi si tira da parte perché non adeguatamente formato per poter trattare una collocazione soddisfacente, indicano che il problema oggi ha molte sfaccettature e richiede interventi su più piani.
Cercando di tenere assieme i diversi aspetti del problema e avanzando un pacchetto di proposte, la Cisl, prima fra le grandi organizzazioni sindacali, ha presentato un verso e proprio manifesto “per un lavoro a misura della persona”.
La cultura che sostiene il manifesto è quella che non isola nella persona l’aspetto del lavoratore dagli altri che formano la persona nella sua interezza. Sempre più il lavoro deve diventare parte delle relazioni che formano e completano la partecipazione della persona alla vita sociale. La conciliazione fra lavoro e vita famigliare diventa determinante. La condivisione dei fini dell’azienda e delle persone che contribuiscono a farla assume un’importanza maggiore rispetto alla fabbrica tayloristica. La centralità della persona porta a un cambio di passo rispetto alle tradizionali politiche di tutela del lavoro. Si passa dalla tutela del posto di lavoro a quella del lavoratore sul mercato del lavoro. Si valorizza il peso del lavoro a partire dalla partecipazione nei luoghi di lavoro, si tratta di aprire ai lavoratori nuovi spazi dove condividere le scelte strategiche e organizzative delle imprese e serve un cambio di passo nelle politiche che rafforzano l’occupabilità delle persone lungo tutto l’arco della vita.
Partecipazione, formazione per competenze sempre aggiornate, politiche attive e più forza alla contrattazione sono i pilastri delle proposte avanzate.
La prima questione è dare valore al lavoro. La perdita del valore di acquisto dei salari nel 2022 (dati Mediobanca) è stata del 22%. Allora la questione non è il salario minimo. Il recupero per un equo salario passa per un rafforzamento della contrattazione di primo e secondo livello. Passa per il rinnovo dei contratti scaduti e per la crescita della quota di reddito nazionale attribuita ai salari. In questo quadro la definizione dei parametri su cui fissare anche i minimi salariali (non solo monetari ma anche di elementi di tutela e welfare) può trovare una soluzione più forte di quella attuale.
Affrontare il tema della formazione significa rafforzare il sistema riguardante quella per gli occupati. Il sistema dei fondi interprofessionali deve crescere per capacità ed efficacia. Dovrà allargare le proprie capacità anche verso i disoccupati per favorire la formazione richiesta dai diversi comparti produttivi. Affidargli anche la certificazione delle competenze li porterebbe a esercitare un ruolo ancora più efficace e contribuire a rafforzare il sistema formativo sussidiario.
La fase formativa delle competenze professionali è vista come parte fondamentale del disegno di intervento complessivo. La spinta è per fare crescere il sistema duale e l’apprendistato è il vero modello necessario per un percorso utile all’inserimento dei giovani al lavoro mettendo fine a stages e tirocini che si prestano a troppi abusi.
I fondi del Pnrr destinati alla formazione e alle politiche attive possono essere determinanti perché si dia vita, entro il prossimo biennio, a un sistema di politiche attive che sia rivolto a tutti i cittadini disoccupati. Il potenziamento delle reti pubbliche e private che si sta facendo in questo periodo può diventare l’avvio di un sistema nuovo e che interessi l’intero Paese superando i ritardi che ancora caratterizzano molte regioni.
Così come le politiche attive dovranno essere rivolte a tutti, il manifesto della Cisl non dimentica che le tutele del lavoro devono coinvolgere anche quei lavoratori autonomi, a partire dalle partite Iva, che sono a tutti gli effetti lavoratori subordinati alle regole dell’impresa diffusa.
Il manifesto del sindacato si presenta come un primo tentativo di affrontare le nuove facce che caratterizzano oggi il lavoro. Indica una piattaforma di misure che possono avviare cambiamenti significativi. Come già avvenuto lo scontro sarà con quella cultura che riduce la persona a mezzo di produzione, isola i singoli in gabbie incomunicanti e persegue ancora la strada sbagliata di non volere una maggiore partecipazione del lavoro nella nuova fase di sviluppo.
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