Nello scorso articolo ricordavo il grande fallimento bancario che ha caratterizzato l’inizio della crisi dalla quale ancora non siamo usciti, quello della grande banca americana Lehman Brothers, compiutosi il 16 settembre 2008. La memoria di certi fatti aiuta a comprendere il momento presente perché ci aiutano a disegnare una traiettoria e comprendere in quale direzione ci stiamo dirigendo. A tal proposito, vi ricordate quando nel 2011 il Senatore (a vita) Mario Monti, in una trasmissione in televisione, disse che “la Grecia, paradossalmente, è il più grande successo dell’euro”?
A leggere i numeri di oggi, sembra che il Senatore Monti avesse proprio ragione. Dal 2019 a oggi il Pil è cresciuto di un roboante 8%, molto superiore al misero 2% circa dell’Italia. E direi che questo è un classico esempio di come il Pil da solo non sia un indicatore di salute dell’economia e della situazione socioeconomica di un Paese. Infatti, il Pil esprime una percentuale rispetto a un valore di partenza e bisogna capire qual è questo valore di partenza e come ci si è arrivati. Sempre per rimanere ai numeri, il Pil della Grecia nel 2008 in termini assoluti era di 355 miliardi di euro, mentre nel 2019 era di appena 173 miliardi, meno della metà. Le previsioni per il 2023 dicono di un Pil che arriverà a 214 miliardi, cioè in calo del 40% rispetto ai valori del 2008. Per fare un paragone, il Pil italiano nel 2018 era di 1.600 miliardi, oggi è circa pari a 2.200 miliardi.
Questo è il “grande successo dell’euro”, cioè delle sue regole e dei suoi vincoli, dettati prima di tutti da chi gestisce la moneta unica, la Banca centrale europea. E siccome l’euro lo hanno anche altri Paesi, questo è lo stesso malanno che sta colpendo l’economia reale degli altri Paesi.
Il caso della Grecia mi è tornato in mente dopo aver letto la notizia dell’approvazione del Paese ellenico di una nuova legge sul lavoro: settimana di lavoro estesa al sabato, si potranno sommare due lavori fino a 13 ore al giorno, si potrà andare in pensione a 74 anni, licenziamenti senza preavviso entro il primo anno, periodo di prova fino a sei mesi per gli impiegati, drastiche limitazioni al diritto di sciopero.
“Difenderemo l’euro, costi quello che costi”, disse Draghi nella famosa conferenza stampa del 2012. Ecco i costi che stanno pagando i greci. E costi simili sono toccati e toccheranno agli altri popoli europei. Pure alla Germania, se è vero che è entrata in recessione e che si inizia a parlare di quel Paese come il “grande malato d’Europa”. Attenzione, anche qui occorre la memoria, perché questa etichetta non è nuova e venne affibbiata nel 1999 proprio alla Germania. In altre parole, siamo di nuovo al punto di partenza, come se non fosse cambiato nulla.
Gli acerrimi nemici di un’ipotesi di ritorno alle monete nazionali hanno sempre sostenuto che i problemi dell’economia non si risolvono semplicemente stampando moneta. Io di rimando, quando ho avuto occasione di intervenire in dibattiti pubblici, ho ribattuto che questa è una grossa accusa alla Bce, la quale fin dalla nascita ha tentato di risolvere i problemi semplicemente stampando moneta in eccesso, tanto da provocare studi di ricerca sui possibili effetti a lungo termine di questa azione scellerata. Concordo in pieno sul fatto che non si risolvono i problemi economici semplicemente stampando moneta: al limite si possono nascondere per qualche tempo, ma prima o poi i nodi vengono al pettine.
Ora che a lamentarsi sono gli imprenditori tedeschi, la questione assume una connotazione diversa. E tutti i tedeschi se ne lamentano, tanto che nei sondaggi il partito Afd (ostile all’euro) è a un passo dal diventare il primo partito in Germania.
E in Italia? Gli industriali si lamentano del Reddito di cittadinanza o, più recentemente, del superbonus edilizio. Nel primo caso, lamentano che così non si incentiva al lavoro, ma non considerano che il cuore del problema sono le retribuzioni troppo basse. E siccome non possono lavorare in perdita, allora l’unica soluzione realistica sarebbe quella di abbassare drasticamente il cuneo fiscale, cioè la tassazione sul lavoro. Questo lo sanno tutti, lo sanno da anni, ma ora la colpa è del Reddito di cittadinanza. Ora lo hanno tolto e quale poteva essere l’effetto conseguente? Semplice, calo della capacità di spesa dei cittadini, calo dei consumi, calo dei profitti delle aziende. Ci voleva un genio per capirlo?
E pure la storia del superbonus è un classico caso di suicidio economico. Sarebbe stato sufficiente mantenerlo in piedi e rendere i crediti sempre rigirabili, senza scadenza, così che nessuno li avrebbe usati per scontare le tasse da pagare, come era nei piani originari del principale sostenitore di questo sistema, l’economista Paolo Conditi. Come una cambiale o un assegno che viene continuamente, eternamente girato e non si presenta mai all’incasso. Un modo intelligente di creare di fatto una moneta alternativa. Invece no, quei furboni del Governo hanno interrotto il meccanismo virtuoso e così ora si lamentano che vi sia il conto da pagare. “La cena l’han già mangiata tutti, si sono alzati, e a noi resta da pagare il conto”, si lamenta il ministro dell’Economia Giorgetti.
Poverino. Omette solo di dire che quelli che hanno “mangiato” hanno pure lavorato e quindi coi frutti di quel lavoro si potevano dare garanzie (i crediti del bonus) al ristoratore, in modo che potesse usarli per pagare i suoi costi; è così che funziona l’economia: beni e servizi che circolano in cambio di crediti (moneta o altro) che circola.
Ancor peggio, il Ministro ha omesso di dire che per Eurostat il superbonus 110% non era da conteggiare come debito pubblico, finché fosse in circolazione, ma solo come deficit al momento della riscossione. E le stime davano per scontato la copertura del deficit grazie al maggiore Pil generato da questa circolazione. Ancor peggio, il Ministro ha dimenticato di dire che già negli anni passati vi erano stati diversi bonus e l’ultimo reso operativo era al 90% e riguardava solo le facciate dei palazzi. Ma nessuno ha detto nulla per quel bonus, nessuno ha enfatizzato i casi di truffa, nessuno si è adoperato per chiudere in anticipo quel sistema che ha dato spinta a un settore (quello edilizio) in difficoltà.
In altre parole, il sistema dei crediti fiscali ideato dall’economista Conditi mirava a dare credito al lavoro, cioè quello che molte delle banche in questi anni hanno smesso di fare o fanno sempre di meno.
In realtà la scelta di fermare il superbonus 110% è stata meramente politica, un dispetto al Governo Conte iniziato dal Governo Draghi (che ha fermato al cedibilità dei crediti) e completato dall’attuale Esecutivo. Un dispetto politico che ora però pesa gravemente sul debito pubblico. Tutto ciò visto di buon occhio dai funzionari Ue per impedire che si potesse creare (e potesse funzionare) un sistema che di fatto con una moneta parallela facesse crescere l’economia.
Gli imprenditori italiani, o chi li rappresenta, si fermano alla superficie del problema e non vedono la radice che sta avvelenando l’intera economia. Sembrano non capire che i vari Governi e il sistema bancario “risolvono” i loro problemi facendoli pagare all’economia reale, ma questi problemi hanno la loro radice in un’architettura finanziaria e monetaria che non è disegnata per sostenere l’economia, ma solo la finanza e i giochi sporchi di chi vi opera.
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