Con la diffusione della Nadef il cerchio si è finalmente chiuso. Le cifre, le considerazioni e molto altro ancora hanno completato quel nostro dossier rimasto aperto che, dallo scorso aprile, ci vedeva in prima fila ad aver posto un serio e non scontato interrogativo sul costo di finanziamento del nostro debito pubblico. Come recentemente riportato, le temute avvisaglie per un immediato riscontro nella Nota di aggiornamento al Def erano da noi attese fin dalla vigilia e l’aver appreso attraverso la consultazione della consueta tabella posta nelle prime pagine del voluminoso documento non ha certamente stupito.
Il tema alla nostra attenzione fa riferimento all’ammontare della voce “interessi passivi” che, come indicato dall’Esecutivo in carica, vedeva ad aprile valori ridimensionati per l’anno in corso rispetto alle cifre del 2022. Una dinamica che, contestualizzata agli ormai noti intenti di politica monetaria della Bce, appariva fin da subito troppo velleitaria: anomalo assistere a una riduzione degli interessi sul debito pubblico italiano rispetto a un incremento (già avvenuto e poi proseguito) deciso dalla Presidente Lagarde e dal suo board.
Una possibile soluzione a tale distonia poteva risiedere in una sforbiciata al numero ed al complessivo importo collocabile di titoli di Stato durante l’intero 2023, ma, anche in questo caso, purtroppo, tale opzione non sembra attuabile poiché il ricorso al debito ha sempre rappresentato un elemento portante in mano a ogni Governo. Guardando ai numeri, infatti, a settembre si registra uno stock di titoli domestici in circolazione pari a 2.388 miliardi di euro. Non solo.
Da quanto emerge nel “Programma trimestrale di emissione e quadro macro – IV trimestre 2023” «dal 1° ottobre al 31 dicembre, si stimano pertanto emissioni lorde di titoli a medio-lungo termine in area 60 miliardi» che, alimentando l’importo nominale complessivo pari a circa 244 miliardi di fine agosto, completano la programmazione finora prevista. A inficiare questa dote, però, c’è l’effettivo “nuovo costo” in capo allo Stato italiano ovvero: «Il costo medio all’emissione fino a fine agosto 2023 è stato pari al 3,62% (contro lo 1,71% del 2022)». Un onere sgradito (a tutti i Paesi) imposto della Bce? Nessun giudizio perché a ognuno spetta il proprio compito. Comunque, il problema c’è e rimane.
Proseguendo, e andando a monitorare la progressione del fardello debitorio italiano, possiamo fino a oggi prendere atto dell’aumento del debito pubblico tricolore passato a quota 2.848 miliardi (agosto) rispetto ai 2.756 di fine 2022: una somma significativa e gravata dal finora incremento avuto. Quest’ultimo (+92 miliardi circa), infatti, si pone ai medesimi livelli conseguiti nell’anno 2021 (+106 miliardi), inoltre, risulta nettamente superiore a quanto prodotto nel 2022 (+77 miliardi) e, al momento, non si può escludere un avvicinamento in direzione del quantum (+163 miliardi) accusato durante l’anno pandemico (rif. 2020). Un debito monstre caratterizzato da altrettanta veemenza monstre.
Tornando alla Nadef e ai valori (in percentuale del Pil) riconducibili agli interessi passivi per i prossimi anni si riscontra una dinamica orientata al rialzo: 3,8% (2023), 4,2% (2024), 4,3% (2025) e 4,6% (2026). Apparentemente, così proposte, le variazioni non sembrano preoccupare poiché riviste ciascuna di un solo decimale (+0,1%) rispetto alla precedente formulazione. Viceversa, a ben vedere, quello che sicuramente desta timore (parecchio), è l’intera revisione apportata: un totale rialzo dello 0,4% (a parer nostro ancora troppo modesto) che, se contestualizzato all’ammontare in essere (e futuro) del nostro debito pubblico non favorisce alcun commento, ma, invece, acuisce apprensione. La stessa che, ieri, al termine della consueta giornata borsistica vedeva quantificato l’attuale stato d’animo dell’Italia: sfiorata la soglia del 5% per il rendimento del nostro Btp decennale ormai prossimo ai livelli del 2012.
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