Le chiacchiere stanno a zero, cioè veramente non contano: il Pd della Schlein è dato in calo di intenzioni elettorali da tutti i sondaggi. Il che per un partito d’opposizione non è bello, visto quanto è facile criticare anziché governare, e si direbbe che non sappia fare neanche questo. E quindi la Cgil corre in soccorso. Uno schema già visto in altri tempi, e funzionale alla vita della sinistra italiana, ma erano altri tempi, appunto.
La manifestazione con cui ieri Maurizio Landini – rompendo con assoluta indifferenza l’unità sindacale: Cisl e Uil non hanno manifestato – ha convocato a Roma due cortei (200 mila persone secondo il capo del sindacato rosso, il 10% di quella cifra, precisamente 23 mila, per la Questura) per protestare contro il Governo Meloni, è il segno di questo rinnovato appoggio. “In un Paese normale il Governo governa appoggiandosi sulla maggioranza che ha e l’opposizione critica e aspetta il suo turno”, diceva semplicemente – in una memorabile intervista a Giovanni Minoli nel ’90, a Mixer – l’avvocato Agnelli. Ma non essendo un Paese normale, l’Italia queste cose ovvie non se le può permettere.
E poi c’è un precedente forte e chiaro. Torniamo indietro di 21 anni, al 23 marzo del 2002. Sergio Cofferati, Segretario della Cgil, riunisce al Circo Massimo tre milioni di manifestanti (300 mila per la Questura, ma anche 300 mila, se veri e lo erano, sono un’enormità!) per protestare contro l’idea del Governo Berlusconi – inopportunamente caricato a molla dalla Confindustria di Antonio D’Amato – di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che proibiva in ogni caso il licenziamento individuale. La prova di forza riuscì, la norma venne accantonata e poi insabbiata: era il buonismo di Berlusconi, che voleva sempre essere “amato” da tutti. Sarebbe poi stato paradossalmente un segretario del Pd fattosi premier, Matteo Renzi, con il suo “Jobs Act” del 2015, a trasformare finalmente in legge quell’idea.
Contro cosa ha protestato invece stavolta la piazza Rossa? In fondo, contro se stessa. Contro tutti gli errori – compreso quello di ieri, ma non lo ammetteranno per molto tempo – che hanno allontanato il Pd dalla sua base e la sinistra politica italiana dal sostegno del suo elettorato naturale, i salariati poco abbienti, che giustamente – giustissimamente – si vedono rappresentati meglio dalla Lega, perfino da Fratelli d’Italia, i quali se non altro sembrano difenderne meglio gli interessi. E poi Landini non è Cofferati. Cofferati aprì il suo comizio di quel 23 marzo ricordando la figura di Marco Biagi, assassinato dalle nuove Br per punirlo della sua riforma. Parliamo di altre levature, altre stature. Landini sinceramente sembra ripetere frasi fatte, l’epoca in cui colpì tutti per il coraggio col quale fu l’unico a osare confutare le tesi di un grande come Sergio Marchionne sembra mille anni fa.
Quello che si è visto in piazza a Roma è stato un risotto confuso, privo di nerbo politico, debole e genericissimo nel contenuto programmatico e rivendicativo. Bella ciao, i partigiani, le disuguaglianze che proprio la sinistra Ztl ha ampliato e amplia ogni giorno.
La Cgil è sempre stato il Settimo Cavalleggeri del suo partito di riferimento, insomma. Il dramma è che oggi, pur con tutti i limiti della sua leadership che però per lo meno è onesta, il sindacato rosso quel partito non lo riconosce più, non lo trova più. E dunque le battaglie di riferimento diventano evanescenti. Alle 22 di ieri il quotidiano storicamente più attento alla Cgil ed al suo rapporto col Pd, cioè La Repubblica, non trovava di meglio che titolare: “Cgil per i diritti, Landini: ‘Siamo la piazza che paga le tasse. È il momento del salario minimo’”. Onestamente (eh capirai!) “la piazza che paga le tasse” non si può sentire, anche perché sarebbe meglio aggiungere, per sincerità, che le paga “non potendo evaderle”. E poi il salario minimo: una materia scivolosissima lasciata sguarnita di giustizia ed equità per colpa, essenzialmente, proprio di quei sindacati che la Cgil capeggia. Se oggi esistono 900 contratti di lavoro firmati dai confederali, che coprono il 90% dei lavoratori, e vengono elusi riducendo i salari sotto i minimi contrattuali, la colpa essenziale è della Cgil. I contratti nazionali possono essere impugnati davanti al giudice da chi ritenga di esserne stato estromesso o di averne subito una disapplicazione (alias: quando ti assumo ti dico che ti darò 1.500 euro al mese e poi in realtà te ne do 1.000), ma essendo contratti privati non possono essere contestati dagli ispettori, e comunque di ispettori del lavoro ce ne sono metà del necessario e, almeno, il Governo Meloni se non altro ne sta reclutando altri 800…
La Cgil sa che per l’Istat il 18% del lavoro italiano è del tutto o parzialmente in nero, ma negli anni della sinistra di governo, o parasinistra (leggi: Draghi) non ha saputo fare niente per sanare l’assurdo. Ora va in piazza, e va bene: fa il suo mestiere. Ma lo fa male. La coalizione di maggioranza che governa, se non perde la brocca per qualche sempre possibile personalismo, della piazzetta di ieri – almeno a confronto con quella del 2002 – se ne potrà altamente fregare, continuando a governare come sa (o non sa) e come può (o non può), ma certo non temendone né gli slogan né i numeri.
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