È l’alba di sabato, festa di Sukkot. Non sarà una mattina come le altre. I miliziani di Hamas lanciano una pioggia di razzi (5mila, 2.500 secondo le autorità israeliane) sul territorio dello Stato ebraico. È l’operazione “Alluvione al Aqsa”, che coglie di sorpresa Israele. Una vasta offensiva, studiata nei minimi dettagli, oltre i confini di Gaza, fatta di penetrazioni terrestri, uccisione di militari e civili, cattura di ostaggi, operazioni chirurgiche contro i tanks israeliani sorprendendoli dal cielo con parapendii a motore. Netanyahu parla alla nazione, dichiara la guerra e annuncia una risposta durissima: “ci vendicheremo”, “l’esercito userà tutto la sua forza per scalzare Hamas, li colpiremo ovunque”. A fine giornata il premier e il suo avversario Lapid propongono un governo di unità nazionale. Il bilancio è pesantissimo: secondo quanto riportato dall’Ansa sono oltre 250 le vittime israeliane, 232 le vittime nella Striscia e 1.650 quelle ferite.
“È sfuggita dai binari, ridiventando visibile, una guerra a bassa intensità in atto da tempo – spiega al Sussidiario Filippo Landi, già corrispondente Rai da Gerusalemme e poi inviato di Tg1 Esteri –. Non si vuol capire che Gaza, Gerusalemme, la Cisgiordania e perfino il destino dei palestinesi dentro Israele sono indissolubilmente legati”.
Perché adesso? Perché Hamas ha iniziato proprio ora l’operazione Alluvione al Aqsa?
I palestinesi, cioè l’opinione pubblica ma anche i movimenti politici e perfino Hamas, per molti mesi hanno atteso l’esito della battaglia politica all’interno di Israele. Ora Netanyahu e il suo governo di destra sembrano aver prevalso sugli oppositori. Hamas ne ha preso atto e cerca di fronteggiare, militarmente, un programma di governo che fa loro paura: prima il controllo della Cisgiordania, poi Gerusalemme, i palestinesi in Israele, infine Gaza.
Si è trattato di un’operazione complessa: infiltrazione di combattenti oltre confine, uccisione di militari e civili israeliani, cattura di prigionieri; anche un generale israeliano. Qual è l’obiettivo?
Dare un segnale militare e politico al governo Netanyahu, ma anche ad alcuni governanti arabi, in primo luogo al regime dell’Arabia Saudita. Ai politici e ai militari israeliani si vuole far capire che “la politica del carciofo” non funziona. Uccidere a centinaia miliziani e civili palestinesi in Cisgiordania, a Nablus, Jenin, Gerico e Gerusalemme può andare avanti per mesi nel silenzio internazionale, ma alla fine ha un duro prezzo da pagare. Lo stesso per il cambio dello status quo a Gerusalemme e soprattutto nei luoghi santi, con la cosiddetta ebraizzazione totale della città, è un processo che può lasciare indifferenti alcuni Stati arabi, ma può divenire una nuova “resistenza” per i movimenti islamici che va direttamente al cuore dell’opinione pubblica palestinese, araba ed islamica tutta.
Hamas ha dichiarato di voler “porre fine alle violazioni israeliane” ma anche “alla profanazioni dei luoghi santi a Gerusalemme”. Quali sono le tue osservazioni in proposito?
È su questo punto che la battaglia politica in Israele aveva suscitato le maggiori attese e poi una grande delusione tra i palestinesi. La vittoria di Netanyahu e dei partiti della destra religiosa ha messo in un angolo il movimento laico israeliano. Ora riapre ed accelera il tentativo di espellere, in via amministrativa, gli oltre 250mila palestinesi di Gerusalemme e di assumere il controllo della Spianata della Moschee.
Netanyahu ha risposto agli attacchi di Hamas dichiarando lo stato di guerra. Israele è stato colto di sorpresa?
È evidente che esercito e polizia israeliani siano stati colti di sorpresa dal numero e dell’articolazione degli attacchi, aerei e terrestri. Non è certo una “invasione”, come qualcuno impropriamente ha scritto, quella che Israele ha subito. Tuttavia è un attacco più che simbolico, militarmente rilevante.
L’intelligence militare israeliana ha fallito?
Sapeva da mesi che gli attacchi contro i miliziani palestinesi a Nablus e Jenin, ed anche gli omicidi mirati dentro Gaza, avrebbero potuto provocare una reazione di Hamas. Gli stessi politici israeliani ne erano certo consapevoli.
Qual è a tuo avviso il grado di coordinamento con le forze iraniane da parte dell’ala militare di Hamas? Si tratta di una guerra per procura?
Dare una risposta positiva a questa domanda risolverebbe i problemi di alcuni “analisti” incapaci di comprendere la complessità che genera le ricorrenti guerre a Gaza. Gaza, Gerusalemme, la Cisgiordania e perfino il destino dei palestinesi dentro Israele sono indissolubilmente legati, questo dovrebbe essere il punto di partenza delle analisi. Anche il rapporto tra Hamas e Iran è tutt’altro che scontato. Basti pensare che l’Iran ha recentemente ristabilito le trattative diplomatiche con l’Arabia Saudita, storico alleato degli Stati Uniti e recentemente corteggiato proprio da Israele al fine di isolare ancor più i palestinesi. Quindi la guerra per procura mi sembra una tesi veramente debole, perché di fronte c’è una “guerra a bassa intensità”, come si vantavano i militari israeliani – e non solo loro – ancora una volta sfuggita dai binari e divenuta nuovamente “visibile”.
Netanyahu ed il suo storico oppositore Lapid propongono ora un governo nazionale. È una svolta politica?
Potrà arrivare un nuovo governo, in nome della difesa della sicurezza degli israeliani. Tuttavia non verrà certo percepito come una svolta politica, ma un nuovo status quo tra la destra religiosa ed un movimento laico israeliano, oggi sconfitto politicamente ma più consapevole delle sue richieste dopo mesi di battaglie intorno alla riforma della giustizia voluta dal governo Netanyahu. Fino alla prossima resa dei conti interna ad Israele.
(Federico Ferraù)
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