Dopo l’attacco improvviso di Hamas, che ha preso alla sprovvista l’intero Paese, Israele cerca di reagire alla sua “Pearl Harbor” dirigendo i carri armati verso Gaza. L’inattesa pioggia di fuoco contro le città israeliane avrà, come annunciato da Netanyahu, una risposta adeguata, una vendetta. Nel frattempo una lunga scia di sangue sta segnando le prime ore di guerra con centinaia di morti da una parte e dall’altra.
L’attacco palestinese, spiega Marco Di Liddo, direttore del Cesi, Centro studi internazionali, non ha precedenti e arriva in un contesto di normalizzazione dell’area in cui allo storico accordo Iran-Arabia Saudita, favorito dai cinesi, doveva far seguito l’altrettanto importante intesa Israele-Arabia Saudita, sostenuta dagli Usa. La reazione di Hamas mette in crisi anche questo processo e nasce anche dalla paura che la questione palestinese venga messa in secondo piano. Quello per cui si sono mossi in modo particolarmente violento, però, è la paura per il loro futuro, che nasce da decenni in cui la mancanza di soluzioni ha radicalizzato le posizioni palestinesi.
L’attacco frontale palestinese ha sorpreso Israele, ma Hamas ha la forza militare per sostenere un’azione in grande stile come questa e fronteggiare la reazione del nemico?
La storia è piena di formazioni armate, terroristiche, anche di guerriglia, che hanno lanciato azioni o campagne in una situazione di asimmetria, anche se di fronte, cioè, avevano delle forze armate strutturate. La forza militare non va concepita in termini assoluti, esercito contro esercito, aviazione contro aviazione, ma sulla base dell’obiettivo che si vuole raggiungere. Hamas ha dimostrato di aver pianificato in maniera eccellente l’operazione: quello che si è visto non ha precedenti nella storia fra palestinesi e israeliani. Ora cercherà, con metodologie non convenzionali, di rendere la vita impossibile all’esercito israeliano: nei prossimi due o tre giorni ci possiamo aspettare un’attività di guerriglia negli insediamenti che circondano la striscia di Gaza, consci del fatto che la reazione israeliana arriverà. L’obiettivo è il ritorno politico. E in questi termini Hamas qualcosa lo ha già ottenuto: Israele è in subbuglio e il suo governo in tensione. Da parte palestinese si vuole dimostrare soprattutto che Israele non è invincibile ma, anzi, può essere colpito al cuore.
La mossa di Hamas è frutto di rapporti israelo-palestinesi che avremmo già potuto definire ai minimi storici. Si è basato su questo l’effetto-sorpresa?
Quello che ha fatto Hamas non ha precedenti e spinge i rapporti tra Israele e Palestina a un livello ancora più basso. Però il punto di partenza non era un rapporto tranquillo e trasparente, la situazione si è incancrenita da decenni e non si trovava una soluzione. Questo concetto di minimo storico poteva assumere un valore se in precedenza avessimo avuto un trend che lasciava sperare qualcosa di positivo, ma questo trend non c’era. Siamo all’ulteriore peggioramento di una situazione già senza via di uscita, terribile.
Ma questo attacco senza precedenti potrebbe spingere a sua volta Israele a una risposta senza precedenti, con conseguenze inimmaginabili?
Quello che è successo lascerà ferite profonde e il governo israeliano, anche in virtù della sua composizione politica, dovrà fare dei calcoli molto sottili: c’è una enorme rabbia popolare che chiede a Netanyahu una punizione esemplare. E anche lo stesso premier, che ha costruito la sua carriera politica prima di tutto sull’affidabilità e sulla sicurezza, adesso si trova a un bivio: o una risposta che giustifichi la coerenza della sua carriera politica oppure la pietra tombale su di essa. I partiti più estremisti di destra spingeranno per qualcosa di operativamente molto pesante, come mai si è visto nella storia del conflitto, ma il resto delle componenti politiche israeliane sanno benissimo che l’azione militare, per quanto pesante, non risolverà il problema. Forse calmerà la situazione nel breve periodo perché Hamas e i movimenti palestinesi dovranno riorganizzarsi e assorbire il colpo, ma se non si va a intervenire sulle questioni politiche ed economiche è ovvio che questo tipo di contrasto ritornerà con il tempo.
E i Paesi dell’area come potranno reagire?
Finora i Paesi arabi hanno risposto in maniera abbastanza moderata, hanno inviato al dialogo, anche perché è in corso un faticoso processo di normalizzazione dei rapporti nella regione che nessuno vuole compromettere. L’azione dei palestinesi cerca anche di colpire questo processo, punta a far tornare la diplomazia regionale a prima degli accordi di Abramo.
I palestinesi hanno paura che la normalizzazione dei rapporti nell’area sia a scapito loro?
Sì. Potrebbero essere colpiti dalla normalizzazione. Potrei suonare un po’ cinico, ma la verità è che la questione palestinese importa relativamente ai Paesi arabi. È sempre stata uno strumento all’interno di un confronto regionale molto più ampio rispetto al quale il destino dei palestinesi diventa ininfluente. Se guardiamo alle azioni diplomatiche dei Paesi arabi c’è sempre stata una manipolazione della questione palestinese per altri obiettivi. La normalizzazione dei rapporti, poi, inevitabilmente porta alla perdita di peso di certi dossier. E quello palestinese è uno di questi.
Ma quanto pesa questo processo di pacificazione in atto?
Da un lato si vuole costruire una nuova architettura di politica e sicurezza in Medio Oriente, per farlo però ora bisogna stare attenti a come si reagisce rispetto all’azione dei palestinesi: in questo momento nessuno Paese arabo può plaudire a quello che ha fatto Hamas, perché è di una brutalità inaudita; dall’altra parte Israele deve reagire ma non può usare il pugno di ferro, perché nel momento in cui gli effetti collaterali e le morti dei civili assumessero una magnitudo insostenibile, anche i Paesi arabi non potrebbero tacere. Gli unici che hanno plaudito pubblicamente all’azione palestinese, finora, sono stati gli iraniani e ci sono state più conferme di un supporto diretto dell’Iran all’azione di Hamas.
L’Iran, tuttavia, visti gli accordi con l’Arabia Saudita, sembrava uno degli attori del processo di normalizzazione dell’area. Come mai allora questo appoggio ai palestinesi?
Quello della normalizzazione è un processo in itinere, che ha compiuto solo i primi passi. E come tutti gli accordi con un portato politico rilevante ha i suoi oppositori: c’è chi dalla normalizzazione potrebbe perderci, perché di solito in questi frangenti emergono forze più moderate. Le forze estremiste, più massimaliste, perdono peso politico e interessi. Se si vogliono opporre devono fare in modo che si torni a una situazione di tensione, che legittimi le loro retoriche e le loro agende politiche. All’interno di ciascun Paese ci sono fazioni contro la normalizzazione e l’Iran è l’esempio più grande.
Si parla di attacchi dal Libano e nella zona ci sono Paesi come la Siria in cui la situazione, anche dal punto di vista militare, è ancora tesa: c’è la possibilità di allargamento del conflitto?
Il rischio di escalation nell’area c’è sempre. Ci sono troppi fattori di crisi: la gestione diplomatica sarà fondamentale perché questi fattori non si inneschino. In questo momento, però, la volontà degli arabi non è di ampliare lo scontro: non è nei loro interessi.
Gli Usa che ruolo hanno? Sono anche loro attori della normalizzazione, fautori di un accordo Israele-Arabia Saudita, cosa possono fare?
Hanno subito un colpo anche loro, anche se la loro azione non è evidente come in passato. Il parziale disimpegno americano dalla regione mediorientale è frutto dei tempi: ci sono altri dossier di medio e lungo periodo che per gli Usa hanno la priorità, come quelli dell’Ucraina e della Cina. In questo contesto il Medio Oriente ha meno importanza del passato. Poi dipenderà da come si sviluppa la situazione.
Quella appena iniziata comunque ha tutta l’aria di non essere una guerra lampo: ne dovremo parlare a lungo?
Potrebbe essere uno scontro che si prolunga nel tempo, anche se poi dire quanto durerà diventa difficile. Gli scontri sono in corso, bisogna vedere anche cosa farà Israele, come gestirà la questione delle oltre 50 persone sequestrate, tra civili e militari. Non possono non tenerne conto.
Al di là delle considerazioni geopolitiche sull’area, rimane il problema della questione palestinese. Ed essa non è risolta.
La questione della politica regionale del Medio Oriente è importante, ma il conflitto israelo-palestinese vive di dinamiche sue. Attenzione a dare troppa importanza alla questione internazionale in sé. Non è il contesto regionale che in questi momenti spinge i palestinesi a fare quello che hanno fatto, è la paura del loro futuro ed è una situazione di disagio che vivono nelle loro zone che ha portato nei decenni al rafforzamento di un fronte estremista.
(Paolo Rossetti)
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