Il Fondo monetario internazionale martedì ha rivisto al ribasso le previsioni sulla crescita dell’economia globale, con l’Eurozona che rallenta ulteriormente la propria marcia (+0,7% la stima per il 2023), anche rispetto agli Stati Uniti (+2,1%), appesantita da una Germania in recessione (-0,5%). Va detto, però, che il World Economic Outlook presentato a Marrakech non può tenere conto delle eventuali conseguenze del conflitto che in questi giorni coinvolge Israele e Hamas. E non manca chi ricorda che proprio nell’ottobre di 50 anni fa in quell’area ci fu la breve Guerra dello Yom Kippur, che innescò una crisi petrolifera che ebbe conseguenze globali. Abbiamo chiesto un commento a Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano.
Professore, nonostante i venti di guerra, i mercati non stanno facendo registrare ribassi. Come mai, a suo avviso?
I mercati finanziari lavorano sulle aspettative e la tendenza a vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto è la battaglia quotidiana degli operatori. L’andamento attuale ha probabilmente a che fare con una visione di relativa stabilizzazione della politica monetaria.
Nel senso che sembra più certa la fine del rialzo dei tassi e l’avvio magari di una loro discesa?
No. Più che altro si intravvede una prevedibilità maggiore di quanto ci sia stata finora, in particolare sui tassi a lungo termine. È possibile, quindi, fare scommesse più “ragionevoli” di quanto avveniva, per esempio, solo sei mesi fa.
Cosa pensa, invece, del rischio di rivivere una crisi come quella di 50 anni fa?
Che sarebbe diversa, in quanto l’economia a quel punto avrebbe subito, contando anche Covid e guerra in Ucraina, tre shock ravvicinati nel giro di pochi anni. Abbiamo visto, tra l’altro, che i Paesi rispondono in modo diverso a shock comuni, i quali hanno a loro volta conseguenze non uguali per tutti, come ci hanno appena ricordato le previsioni del Fondo monetario internazionale: in luogo di una dinamica convergente, c’è n’è una divergente. Basta vedere che gli Stati Uniti continuano ad andare bene, mentre la Germania no. L’economia tedesca si riprenderà, ma i tempi potrebbero essere più lunghi del previsto. Con tutti i riflessi che questo ha su altri Paesi europei.
C’è, quindi, il rischio che le conseguenze di quel che sta avvenendo in Israele in questi giorni possano ampliare la distanza economica tra Usa e Ue?
Sì, decisamente. In Europa continuiamo a essere indietro sul piano della governance decisionale, manca un coordinamento della politica fiscale, a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti. Va anche detto che oltreoceano c’è un’industria militare più sviluppata che potrebbe trarre vantaggio dalla situazione che si è creata, mentre l’Europa rischia anche di pagare maggiormente le conseguenze di un ulteriore rialzo dei prezzi delle materie prime energetiche.
La Bce dovrà tener conto di questi rischi?
Per forza deve tenerne conto, ma va ricordato che la politica monetaria deve essere accompagnata anche da politiche fiscali adeguate alla situazione. In questo senso, basta evidenziare che in Spagna, attraverso la politica fiscale, si è attenuato l’impatto dello shock inflazionistico sui livelli medi e bassi di reddito, e si è riusciti così a mantenere un adeguato livello della domanda e, conseguentemente, dell’attività produttiva.
Quel che sta dicendo implica che anche nel mettere a punto la riforma del Patto di stabilità si dovrebbe tener conto di quel che sta accadendo…
La riforma dovrebbe privilegiare sia la stabilità che la crescita, che, se vanno di pari passo, possono favorire una convergenza tra i Paesi membri. Convergenza che continua a mancare. Se guardiamo ai redditi reali e al potere d’acquisto dei cittadini, l’Italia ha perso terreno rispetto agli altri Paesi. A livello italiano, occorre, quindi, sostenere i redditi, ma soprattutto aumentare la produttività, altrimenti si finisce per alimentare la domanda a debito. Spero, invece, che a livello europeo ci sia la consapevolezza che bisogna proteggersi meglio, tutti insieme, da nuovi possibili shock esterni.
Se i prezzi energetici dovessero salire ancora, l’inflazione tornerebbe a crescere. La Bce, a quel punto, dovrebbe guardare prioritariamente al rischio di un rialzo inflazionistico o di un rallentamento dell’economia?
Non credo che esista una vera alternativa tra sostenere la produzione e contenere la dinamica dell’inflazione. Tra l’altro siamo in un contesto in cui i tassi sono elevati e l’attività economica, quindi, è già limitata.
(Lorenzo Torrisi)
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