“Sarò sempre il meccanico che sistema i pezzi che la vita ti spacca”: bentornato Davide Van De Sfroos, bentornato con le tue canzoni discrete, che non urlano e non cercano di nascondere la realtà, ma che ci accompagnano con empatia e tenerezza nelle nostri difficili giornate. Manõglia è un disco che ti abbraccia e ti accoglie, una manciata di canzoni dall’incedere acustico (chitarre, mandolino, violino, banjo, strumenti africani, pianoforte) che sembrano risalire alla notte dei tempi, che raccontano di come si possa arrivare alla fine di giornate difficili accorgendosi della bellezza che ci circonda: “Questo disco nomina ogni tanto la malinconia, ma non è un disco di piagnistei, non ti deprime, dovrebbe darti quella calma iniezione di bellezza cosmica che ti dà la brezza serale” ci ha detto in questa intervista. Alla fine “riparare un destino sfondato è una forma di amore”. E noi gli siamo grati.
L’ultima volta che ci siamo sentiti mi avevi detto che avresti voluto fare un disco alla Woody Guthrie, solo voce e chitarra acustica, una sorta di Nebraska alla VanDe Sfroos. Manõglia è un disco intimo, con pochi strumenti, molto diretto: come sei arrivato a questo risultato?
Spesso tanti fan della prima ora mi dicevano, ma non senti l’esigenza di fare un disco acustico anche con le tante cover che fai spesso in concerto, ad esempio quelle di Bob Dylan. Una cover di Dylan ce l’avevo pronta, quella di Hard Rain, purtroppo dopo che si è venduto il catalogo non è più lui a decidere l’utilizzo dei suoi brani e non siamo riusciti a metterla sul disco. Tornando alla tua domanda, non è diventato il Nebraska che avevo in mente, o il “Bernasca” come diceva qualcuno, e non è un disco alla Woody Guthrie. Canzoni come Zia Nora se ascolti l’originale suona davvero un po’ come il primo Dylan, i folksinger alla Woody Guthrie. Ma è successo quello che faccio sempre, andare in studio con la canzone pronta e poi costruirla con gli altri musicisti, vestirla come merita, sono venute fuori delle tinte che lo hanno mantenuto un disco un po’ alla Donovan, alla Tim Buckley.
La mia impressione è che è davvero un disco caldo, accogliente, ti fa sentire come se entrassi nel salotto di casa tua, a sentirti cantare, magari davanti a un bel fuoco: che ne dici?
Voleva proprio essere questo. Il calore di cui parli lo sento anche io e infatti ho voluto farlo uscire a ottobre, in autunno.
Anche se questo ottobre fa un caldo bestia, 30 gradi…
Soprattutto pieno di zanzare. Sono contento che non è un disco nudo e crudo. È venuta fuori una alchimia grazie alla mancanza di una sezione ritmica che ha permesso il dilatarsi dei testi in un modo e delle musiche in un altro.
C’è sempre un forte tessuto popolare nella tua musica, che ti contraddistingue, che va dal Nord America all’Italia e anche più in là: è questa la tua appartenenza?
Sto parlando con te che sei uno che conosce bene il disagio nel doversi riconoscere in cose che non ti appartengono e che fai fatica a ritrovare. Sappiamo benissimo che il mio percorso musicale non è mai stato mainstream anche se ho sposato mille tipologie, il rock, il blues, il reggae persino il rap perché la musica mi piace tutta, mi piace potermi aprire, senza confini. Questo è un disco che non segue di certo la corrente, che non sentirai in radio, che non sgomita con quello che va di moda oggi.
Hai anche deciso di non utilizzare lo streaming, solo vinile e cd.
È un modo di avvicinarsi di più al mio pubblico che compra ancora i dischi, ridare dignità alla figura del disco.
Manõglia, il brano, con quel bellissimo mandolino in primo piano mi ha ricordato i REM di Losing My Religion.
Sai che quando l’ho riascoltata dopo averla registrata è venuto in mente anche a me? Alessandro Gioia che ha fatto con me tanti dischi ha sviluppato il sound che si sente, ma anche prima di Losing My Religion, I REM di Reckoning ad esempio. È stata una bella sorpresa. È un disco che se ne va via da tutte le preoccupazione che possono essere legate all’ascoltatore di oggi, è un prodotto consigliabile da assumere in modo totale.
Come si faceva una volta.
La canzone Forsi parla di incertezza, di non voler salire sulla nave che tutti ti propongono. Lo capisci dal sound, non è musica di questo tempo, ti porta alla New Orleans degli anni 30, c’è Djiango Rheinardt e un tocco di jazz manouche.
Crisalide e Ankainkoo, con il loro elegante accompagnamento pianistico invece ti riportano alla tua grande vena cantautorale, nella traccia di capolavori come 40 Pass. È così?
Nei brani che citi c’è la conferma di quello che dicevamo prima: un pianoforte che si apre e se ne frega di tutto il resto, la sottrazione della chitarra. È venuta fuori una crisalide di suono, quando vuoi elevarti. Il pianoforte dà quell’apertura scintillante ed è diverso da quello di Ankainkoo, che è qualcosa alla Tom Waits anche se non è una ballata urbana come le sue. La prima parte è il risveglio alla mattina quando non sappiamo neanche se abbiamo voglia di cominciare la giornata, la seconda è lo sforzo di trovare nelle cose misteriose e magiche della natura la forza di portare a termine la giornata. Il primo segnale della depressione è la non voglia di vedere il sole. Ma nella seconda parte viene fuori quella primavera dentro che ti dice forse la giornata di oggi valeva la pena di viverla. È una sorta di farmaco che ti dice anche oggi c’è una strana canzone nascosta, valla a cercare. Questo disco nomina ogni tanto la malinconia, ma non è un disco di piagnistei, non ti deprimere, dovrebbe darti quella calma iniezione di bellezza cosmica che ti dà la brezza serale.
Musica popolare e territorio. Tu vivi tra le montagne e il lago, territori che si stanno sempre più spopolando. Cosa vuol dire questa tua appartenenza?
È complicato. Nel mio disco precedente, Maader folk, c’era una canzone che si intitolava Gli spaesati. Non parla solo di gente che lascia il proprio territorio, c’è anche un altro spaesamento. C’è un turismo di massa, un turismo per ricchi che ha preso piede dopo il Covid, fatto di persone molto ricche che occupano acqua e terra, affittano ville con prezzi improponibili, si impadroniscono del territorio.
Una ipertrofia che fa parte di un cambiamento sociale, intendi questo?
Sì, poi abbiamo paesi che sono diventati paesi fantasmi. C’è una disparità, è un mondo che si capovolge. Continuo a frequentare bar popolati da gente molto anziana, mi interfaccio con loro come fossero amici. Sento il bisogno di andare nei posti frequentati da chi ha finito la giornata del muratore e viene a bere il bianchino. Stando con loro mi sento parte di un mondo. “Sotto alla grande magnolia del circolo” dico nella canzone: la magnolia c’è ancora ma quel mondo attorno non c’è più. C’è bisogno di qualcuno che costruisca un progetto che riporti la vita, anche se quel vecchio mondo non tornerà più.
Qualcuno una volta ha detto: Van De Sfroos è un bravissimo cantautore, ma è molto più bravo come scrittore di libri. Ne hai scritti alcuni, è da tempo che non lo fai più, come mai?
Io spero sempre di sì. Sono posseduto dall’esigenza di voler scrivere. Continuo a scrivere e a leggere libri.
Cosa hai letto recentemente?
Mi sono divertito molto a leggere un libro di un mio ex compagno di liceo, Maurizio Sangalli, Come è profondo il lago, un noir comasco. Ho ripreso Cormac McCarthy.
Non sono riuscito a finire Il passeggero, troppo devastante.
Anche io però ho letto Mille lune dello scrittore irlandese Sebastian Berry, momenti di poetica assurda, molto bello. Quanto a me, a volte non mi trovo abbastanza tenace per affrontare l’idea del libro. La canzone mi succhia le idee del libro. I dischi sono i miei libri, dentro c’è tutto. La voglia di scrivere è alla base di tutto.
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