Chi avesse letto i giornali di giovedì 12 ottobre si sarebbe potuto meravigliare (o forse no, considerata la frequenza del fenomeno) per la successione di tre notizie dallo stesso segno: le assoluzioni in appello di Roberto Napoletano e di Domenico Lucano e la conferma in Cassazione di quella intervenuta per Giuseppe Mussari e Antonio Vigni. In tutti e tre i casi, una sconfessione totale delle tesi dell’accusa sostenute in migliaia di carte più utili a costruire castelli che a dimostrare la commissione di reati.
A Napoletano, ex direttore del Messaggero e del Sole 24 Ore, il Tribunale di Milano aveva inflitto una condanna a 2 anni e sei mesi per aggiotaggio e false comunicazioni sociali legate alla gestione delle copie e degli abbonamenti del quotidiano di Confindustria del quale sarebbe stato anche amministratore di fatto. Dunque, responsabile di alcuni maneggi che ora si appura non lo hanno mai riguardato: semplicemente, per la Corte di Appello di Milano “non ha commesso il fatto”.
A Lucano, Mimmo per gli amici, era andata molto peggio: il Tribunale di Locri lo aveva condannato a 13 anni e 2 mesi per associazione a delinquere, truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio. Dopo il vaglio della Corte d’Appello di Reggio Calabria resta in piedi solo l’ultimo capo, relativo a una delibera del 2017, con una riduzione del carico a diciotto mesi e sospensione della pena (non va in galera). Assolti gli altri diciassette coimputati coinvolti, secondo i pubblici ministeri, nel traffico dei migranti e dei richiedenti asilo.
Per Giuseppe Mussari e Antonio Vigni, all’epoca dei fatti Presidente e Direttore generale del Monte Paschi di Siena, la Corte di Cassazione conferma in via definitiva l’assoluzione ottenuta in appello lo scorso anno dopo la condanna in primo grado a 7 anni e 6 mesi e 7 anni e 3 mesi, rispettivamente, per presunte irregolarità nella gestione di prodotti finanziari derivati dai nomi esotici come Alexandria, Santorini, Chianti Classico.
Una vicenda collegata al tentativo di arginare le perdite in bilancio collegate all’acquisizione della Banca Antonveneta per 9 miliardi con accuse di falso e turbativa d’asta allargate ad altre quindici persone, tutte egualmente assolte. La sentenza della Cassazione potrebbe avere effetti positivi sul processo in corso a carico di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, successori dei due banchieri al vertice del Monte e imputati per reati analoghi. La sentenza della Corte d’Appello è attesa il prossimo 27 ottobre.
In tutti i casi i protagonisti sono stati messi brutalmente fuorigioco – con inevitabili ripercussioni sulla vita pubblica e privata, sulla carriera e l’onore, le remunerazioni e la salute – per essere imbrigliati in processi dalla durata incompatibile con le pretese di un Paese culla del diritto: cinque anni per Lucano, sei per Napoletano e addirittura undici per Mussari e Vigni giunti al terzo grado della Cassazione. E con una distanza così ampia tra le richieste dell’accusa e i dispositivi delle sentenze da mettere paura.
Chi ancora si ostina a ritenere che la gestione della giustizia non sia il problema principale per il buon funzionamento del Paese è servito una volta di più. La fantasia e la leggerezza degli impianti accusatori montati dalle procure troppo spesso s’infrangono sul muro solido dei verdetti dei tribunali. I danni d’immagine ed economici che si producono cominciano a diventare insopportabili insieme con le sofferenze di chi capita nelle maglie di un meccanismo che sembra programmato per distruggere reputazioni e fiducia.
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