Pubblico-privato in sanità: collaborazione, competizione o eliminazione?

Occorre che pubblico e privato, pur nella logica distinzione dei ruoli, collaborino al raggiungimento degli obiettivi fissati dall'art. 32 della Costituzione

Da qualche tempo a questa parte, in sanità, le mai sopite sirene del “pubblico è bello” hanno ripreso con forza i loro canti cercando di attirare i naviganti verso le proprie sponde. Non solo con suadenti e convincenti musiche sulla crisi strutturale del Servizio sanitario nazionale (Ssn,) ma anche usando la grancassa (vedi la proposta di referendum abrogativo in Lombardia) per indicare che il problema va individuato in quei cattivoni del privato che vanno alla ricerca della cosiddetta “grande marchetta”.

Si capisce e si comprende il lamento delle sirene a proposito della sanità pubblica e se ne può anche condividere qualche aspetto (sottofinanziamento, problemi del personale, liste e tempi di attesa, …), ma che la soluzione possa essere la marginalizzazione o addirittura la eliminazione del privato accreditato (cioè quello che è parte integrante del Ssn) non è tanto una musica che non ci piace (che sarebbe eventualmente solo un problema di chi scrive perché non c’è alcun obbligo per cui tutte le musiche dovrebbero piacere), ma è una chiara stonatura, un evidente errore musicale (se così si può dire).

Essendo il nostro Ssn in gran parte pubblico, e in alcune regioni addirittura esclusivamente (o quasi) pubblico perché il privato accreditato è praticamente inesistente, è logico e necessario richiedere che il pubblico (inteso come erogatore di servizi) funzioni e funzioni bene, e sia messo nelle condizioni migliori per compiere la sua missione, ma oggi il pubblico (e soprattutto in alcuni territori) a prescindere dal suo buono o cattivo funzionamento non basta, non ce la fa, e viene significativamente integrato dal privato accreditato (anche questo a prescindere dal suo buono o cattivo funzionamento).

Attenzione, per essere ulteriormente precisi ed evitare possibili equivoci: non si sta parlando del privato che sta al di fuori del Ssn, del privato che vive sul rischio di impresa, del privato a cui lo Stato non deve nulla per le attività che vengono erogate dietro pagamento totale da parte dei cittadini o da parte delle forme di protezione (esempio: assicurazioni) che i cittadini stessi hanno scelto volontariamente sborsando risorse aggiuntive di tasca propria; si sta invece parlando del privato accreditato, quello che fa parte a pieno titolo del Ssn.

Non si condividono quindi né le prospettive dei paladini del “tutto pubblico” o, detto con altre parole, dell’eliminazione del privato accreditato, e neppure le preoccupazioni dei profeti di sventura che per difendere a spada tratta il pubblico prevedono l’esaurirsi dell’attuale Ssn perché soppiantato da un sistema tutto privato, a totale pagamento dei cittadini, per il quale forniscono addirittura esempi di (elevate) tariffe.

L’intuizione di aprire il Ssn alle strutture private accreditate, sotto il controllo degli Enti pubblici di programmazione, già presente nella legge che ha istituito il Ssn (833/1978) e poi ulteriormente precisata e specificata con le successive leggi di riforma (502/1992, 229/1999), è un’intuizione giusta, ma come tutte le intuizioni rappresenta solo il “primum movens” di un’iniziativa che va poi precisata, fatta crescere e sviluppare, aggiustata, modificata, aggiornata, anche corretta se del caso. E l’intuizione si può sviluppare in maniera differenziata in diverse regioni e anche all’interno di una stessa regione, con realizzazioni a volte più intense e a volte più deboli anche in funzione delle politiche programmatorie delle diverse situazioni locali.

Vista anche come un’opportunità per introdurre nel Ssn uno stimolo propositivo nei confronti delle strutture pubbliche affinché si incamminassero sulla strada dell’efficienza erogativa, dell’aziendalizzazione, dell’attenzione ai conti per eliminare debiti e sprechi, e così via, tutte qualità ritenute caratteristiche della sanità privata ma poco presenti in quella pubblica, si è dato corso a quella che veniva chiamata una “competizione regolata”, cioè una (tutto sommato finta considerato il significato del termine) competizione governata dalla programmazione regionale che aveva il compito di stabilire le regole di partecipazione (tipo di accreditamento, tariffe, budget, tetti di attività, …).

In 25 anni la sanità (e non solo la sanità) è cambiata. Con felice intuizione ci si interroga, in generale, se ci troviamo in “un’epoca di cambiamento” ovvero se si tratti invece di un “cambiamento d’epoca” (Papa Francesco, 21.12.2019), e la domanda richiede un ripensamento globale anche al Ssn.

Non si tratta di riportare in auge modelli e schemi di pensiero molto presenti all’inizio di questo millennio, ma che in questi anni non hanno trovato quell’apprezzamento che veniva prefigurato, e nemmeno di guardare a modelli sanitari (vedi Usa) che sono tipici di una cultura che non è la nostra e sulla cui validità c’è ancora molto da discutere nonostante per molto si sia già discusso. Del resto, ma non entriamo nel merito, anche altri si stanno muovendo (vedi Germania) su strade in precedenza non percorse.

Ci sono oggi le condizioni che hanno reso possibile la competizione regolata che ha caratterizzato in questi anni, ad esempio, il modello lombardo e non solo? Molti segnali direbbero di no: il tema della cronicità (territorio vs ospedale), i problemi del personale, la lunghezza dei tempi di attesa, le nuove sfide poste dalla pandemia, la rinuncia alle cure e l’uscita dal Ssn,…, impongono un ripensamento più generale al servizio sanitario.

Ritenuta non accettabile l’ipotesi di eliminazione (o marginalizzazione) del privato accreditato, e considerata la necessità di andare oltre la competizione regolata, verso dove si deve guardare? Ci si permetta di avanzare una proposta: creare le condizioni perché si possa passare dalla competizione (per quanto regolata) alla collaborazione. Non si tratta di pensare ad aziende miste pubblico-privato, a spartizione di territori o di aree di influenza, a suddivisioni di attività e servizi, alla creazione di alleanze che apparirebbero necessariamente contro natura (anche se oggi, in altro contesto, si discute di cosa sia natura), ma pur mantenendo le rispettive diverse mission, i diversi obiettivi, le differenti caratteristiche a tutti i livelli, le peculiarità dei due attori, occorre rimuovere (o almeno attenuare) le differenze più eclatanti che acuiscono la competizione: le regole sul personale innanzitutto, le differenze sui controlli, le attività da accreditare, e via discorrendo.

Volendo partire dall’inizio si dovrebbe cominciare mettendo in campo da parte degli enti di governo una programmazione regionale e locale meglio condotta e fondata sull’analisi del bisogno sanitario e non sul libero mercato o sull’offerta; poi si dovrebbe procedere con un accreditamento meglio indirizzato, sia per il pubblico che per il privato, che metta a fuoco in modo equilibrato i bisogni ed eviti di creare condizioni di vantaggio (o svantaggio) agli uni e agli altri (ripensamento complessivo della rete di offerta); poi si tratta di regolare con coerenza le questioni economiche (tariffe, budget, tetti di attività, …) affinché non si generino privilegi e non si dia spazio ad opportunismi; e così via.

Occorre che pubblico e privato, pur nella logica distinzione dei ruoli, collaborino al raggiungimento degli obiettivi fissati dall’art. 32 della Costituzione in modo che il Ssn nel suo complesso garantisca alcuni elementi valoriali considerati irrinunciabili (uniformità, equità, …), in un contesto programmatorio che deve vedere una presenza molto più efficace degli enti di governo (centrali, regionali, locali), ma anche una separazione netta tra i soggetti che programmano (pubblici) e quelli che erogano (pubblici e privati accreditati).

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