Simonetta Cesaroni è stata uccisa il 7 agosto 1990 sul posto di lavoro, negli uffici dell’Aiag (Associazione italiana alberghi della gioventù) di via Poma, a Roma, in cui svolgeva la mansione di segretaria. Ancora oggi, trascorsi 33 anni dal delitto, non c’è un colpevole. L’assassino sfugge alle maglie della giustizia da decenni e il giallo è uno dei più intricati della cronaca italiana. Simonetta Cesaroni, nata il 5 novembre 1969, aveva appena 20 anni al momento dell’omicidio. Secondo quanto ricostruito, sarebbe morta a causa delle ferite riportate nel corso di una brutale aggressione condotta con almeno 29 colpi di arma da taglio, verosimilmente un tagliacarte, e il suo corpo è stato trovato riverso a terra, in posizione supina, quasi completamente privo di indumenti. I vestiti mancanti di Simonetta Cesaroni non sono stati mai ritrovati.
Simonetta Cesaroni viveva con la famiglia nel quartiere Don Bosco della Capitale e quel giorno, sotto il caldo torrido dell’estate romana, si era recata nello stabile di via Poma per concludere un lavoro dopo il quale avrebbe dovuto iniziare le sue vacanze. Figlia di Claudio Cesaroni e Anna Di Giambattista, era la secondogenita della coppia dopo la sorella maggiore, Paola, la stessa che per prima sarebbe arrivata in via Poma, sul luogo del delitto durante le ricerche. Dal 1988, Simonetta Cesaroni era fidanzata con Raniero Busco, un giovane di quattro anni più grande che poi sarebbe finito a processo per l’omicidio con assoluzione definitiva in Cassazione nel 2014.
L’omicidio di Simonetta Cesaroni a via Poma: 29 colpi e un killer mai identificato
Secondo quanto emerso e riportato dalla Cassazione nella sentenza del 2014, le cause della morte di Simonetta Cesaroni “sono pacifiche: uno shock emorragico derivante da 29 lesioni penetranti al versante anteriore del capo, del collo e del tronco e alle regioni inguino-perineali“. Sul corpo sarebbero state rilevate altre tracce: una contusione al volto, sulla paste destra, attribuita ad un “violento ceffone da parte di soggetto destrimane“, una lesione escoriata “alla regione sterno-claveare destra e due minime lesioni escoriate al quadrante supero-mediale della base di impianto del capezzolo sinistro“, e ancora, evidenti tumefazioni sul bacino che, secondo la ricostruzione, avrebbero provato “che le ferite mortali erano state inferte quando l’aggressore si trovava a cavalcioni sulla ragazza, già distesa supina“. Tracce di sangue non attribuite sono state individuate sulla maniglia della porta e sul telefono.
Il killer entrato in azione quel pomeriggio del 7 agosto 1990 non è mai stato identificato. Nei decenni trascorsi dal delitto di Simonetta Cesaroni in via Poma, diverse piste e colpi di scena si sono insinuati nel giallo, un mistero denso di domande senza risposta in cui non sarebbero mancati depistaggi, alibi non del tutto chiariti e molte altre ombre. Come quella che riguarda le presunte telefonate anonime ricevute della vittima prima di essere uccisa: nei giorni precedenti alla morte, la 20enne avrebbe avuto a che fare con un misterioso interlocutore che, più volte, l’avrebbe contattata sul posto di lavoro facendole alcune avances. Recentemente il caso avrebbe trovato un nuovo percorso da seguire con l’attenzione puntata su un reperto: materiale pilifero trattenuto in una mano della vittima e mai analizzato, evidenziato dai consulenti della Procura dopo decenni nell’ambito di una nuova serie di accertamenti con le moderne tecnologie. A TgCom24, il criminologo Franco Posa, tra gli esperti che recentemente hanno messo mano a nuove analisi sui reperti del delitto di via Poma, ha sottolineato quanto segue: “C’è stata una quantità di coltellate che va oltre a quelle necessarie per uccidere. C’è una situazione di overkilling. Stiamo mappando le ferite, la mappatura parla molto“. Secondo l’esperto, sono stati rilevati “segni dei quali non si trova traccia nelle perizie fatte nel corso degli anni” in parti del corpo quali “collo e una mano, dove vi era peluria che non è stata studiata e valutata”.