La vita privata di un capo di governo non esiste o è inestricabilmente condizionata da quella politica. Il caso di Giorgia Meloni non è affatto un’eccezione: cambiano semmai, di volta in volta, le sceneggiature. L’ultimissima – in campo “rosa” – ha riguardato la meteora finlandese Sanna Marin, separatasi dal marito subito dopo aver perso elezioni e premierato.
In anni recenti, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha celebrato nel 2007 il suo insediamento all’Eliseo avendo al fianco la seconda moglie Cécilia, da cui ha però annunciato il divorzio appena cinque mesi dopo (Cecilia aveva da tempo un nuovo compagno, con cui infatti si e risposata subito; mentre lo stesso Sarkozy ha trovato in fretta una nuova moglie, Carla Bruni).
Hillary Clinton, all’epoca First Lady alla Casa Bianca, dovette sottoporsi a umilianti interviste-interrogatorio per raccontare come aveva vissuto (e perdonato al marito presidente) l’affaire Monica Lewinsky. Il caso che però appare più interessante – traguardando la separazione fra la premier italiana e il compagno Andrea Giambruno – ha interessato una leader del calibro di Angela Merkel.
Le voci di crisi matrimoniale fra la cancelliera e il secondo marito – il fisico Joachim Sauer – hanno cominciato a circolare solo dopo l’uscita di scena di “Mutti Angela”, nell’autunno di due anni fa. Da allora, però, il gossip non ha fatto che crescere, lambendo anche l’Italia: l’ultima delle relazioni extraconiugali di Sauer avrebbe infatti coinvolto una scienziata italiana. Le indiscrezioni insistenti hanno fatto comunque ripensare a quando – nel 2019 – Merkel apparve a lungo in precarie condizioni di salute: sulle quali d’altronde non venne mai fatta luce, sebbene Berlino non abbia mai smentito rumor di “depressione”. E quale che sia stata la causa della temporanea défaillance dell’allora 65enne cancelliera, non fu certo neutra per la politica europea.
Per la prima volta, Merkel non riuscì a governare il Consiglio Ue nel cruciale rinnovo degli organigrammi a Bruxelles e Strasburgo dopo l’euro-voto. La stessa ascesa al vertice della Commissione di Ursula von der Leyen (ministro della Cdu con Merkel) maturò con la grottesca astensione della Germania e il brutale accantonamento dello spitzenkandidat bavarese del Ppe Manfred Weber. Ancora qualche mese e la stessa cancelliera “bruciò” malamente la sua erede designata Annegret Kramp-Karrenbauer: dando così il colpo di grazia al difficile approccio di Cdu-Csu al voto del 2021. E non è infondato il sospetto che la perdita di lucidità della Merkel negli anni del suo “crepuscolo” abbia inciso sulle dinamiche geopolitiche che hanno portato allo showdown russo-ucraino: deflagrato quando il gasdotto baltico Nordstream 2 (poi subito bombardato) era pronto per entrare in funzione nonostante gli ammonimenti del neo-presidente Usa Joe Biden.
La 46enne Meloni appare in ogni caso – nel passaggio specifico – più trasparente e coraggiosa della pur monumentale statista tedesca nello sciogliere in tempo reale e in pubblico un nodo personale che avrebbe potuto interferire con il suo ruolo istituzionale e la sua azione politica. È d’altronde difficile pensare che la decisione di rompere con un compagno non sposato (e protagonista di una “sceneggiatura” più che imbarazzante) possa danneggiare l’immagine pubblica di una premier che ha sempre rivendicato l’identità di “donna e madre” (e la presenza regolare della figlia nei lunghi viaggi di Stato lo ha solo confermato). Più facile che l’immagine della prima donna a Palazzo Chigi ne esca invece rafforzata.
Il versante politico della vicenda appare d’altra parte molto corposo: anzitutto perché la stessa Meloni l’ha evocato nel suo annuncio di separazione. È difficile ignorare una prima evidenza di fatto: il leak su Giambruno è nato negli studi di Mediaset ed è stato lanciato nel ventilatore politico-mediatico da Striscia la notizia, forse la trasmissione più storica e identitaria delle tre reti del Biscione. Bene: una trentina d’anni fa il direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli, si assunse la piena responsabilità dell’avviso di garanzia al premier Silvio Berlusconi, sparato in prima pagina la mattina del G7 di Napoli in piena Mani Pulite. Nessuno ha però mai potuto credere che l’editore effettivo del Corriere di allora – l’amministratore delegato della Fiat Cesare Romiti, anche per conto di Mediobanca – non fosse stato preventivamente informato e non avesse dato l’autorizzazione ultima al lancio di un missile mediatico-giudiziario contro il Cavaliere: un imprenditore-outsider da poco approdato a Palazzo Chigi (e infatti prossimo a una prima defenestrazione orchestrata dal Quirinale di Oscar Luigi Scalfaro, con il ruolo decisivo di un alleato come la Lega di Umberto Bossi).
Nel 2023, a parti invertite, anche per un osservatore refrattario alle dietrologie è arduo immaginare che la famiglia Berlusconi – o almeno i vertici manageriali di Mediaset – fossero all’oscuro di quanto Striscia aveva messo in programmazione. Oppure: sarebbe ancor più sorprendente che il “siparietto Giambruno” fosse stato giudicato un contenuto di normale satira “by Antonio Ricci”, quindi con licenza piena di coinvolgere anche la vita privata del presidente del Consiglio.
È pur vero che i leak sulla vita privata del Cavaliere hanno provocato la fine burrascosa del suo secondo matrimonio e innegabili sofferenze familiari: ma erano di fonte principalmente giudiziaria, non confezionati da un gruppo media che rimane – dopo trent’anni, anche dopo la morte di Berlusconi – anche un partito. Un attore politico parte della maggioranza che sostiene il governo Meloni. E non da escludere che sia quella dell’eterno “conflitto d’interesse” fra affari e politica la pista da seguire per interpretare un passaggio non del tutto preventivabile.
Vi sono pochi dubbi che la scomparsa del fondatore di Mediaset – nonché tre volte premier – abbia messo in seria discussione la cornice normativa che, dalla “legge Mammì” del 1990, ha pietrificato il sistema media italiano attorno al duopolio Rai-Mediaset nella tv commerciale. L’Italia è da anni in mora come fuori legge nella Ue. Nel frattempo la rivoluzione digitale ha reso quasi obsoleta la centralità della tv tradizionale. Solo la sopravvivenza del Cavaliere fino allo scorso giugno – rigorosamente fuori dalle stanze dei bottoni della politica nazionale dopo il 2011 – ha garantito tacitamente l’intangibilità di Mediaset: protetta come una sorta di “patrimonio nazionale” perfino di fronte alle mire del finanziere francese Vincent Bolloré. Che a Palazzo Chigi si alternassero i tecnici Mario Monti o Mario Draghi; che vi regnasse per mille giorni Matteo Renzi (anche coi voti di senatori berlusconiani “in prestito” al Pd), che Giuseppe Conte succedesse a se stesso in un ribaltone, nessun governo e nessun Parlamento ha mai messo in agenda una vera riforma del sistema-media. Si accinge forse a farlo il governo Meloni, pur con Forza Italia a bordo?
Può darsi che sia stato nulla più di un dettaglio nella manovra 2024 varata lunedì sera dall’esecutivo: ma il canone Rai è stato tagliato da 90 a 70 euro all’anno. È vero che il governo si è subito impegnato a integrare con fondi pubblici le risorse alla tv di Stato, che in ogni caso dovrà gestire una riduzione di 20 milioni in bilancio. Però non c’è dubbio che – alla sua prima vera legge di stabilità – il governo ha cominciato a muovere qualcosa nell’ingessatissimo mercato televisivo: esattamente come non ha avuto timore di proporre una tassa straordinaria sugli extra-utili bancari (che ha colpito anche Mediolanum, ciò di cui Marina Berlusconi, numero uno dell’azionista Fininvest, ha ritenuto di lamentarsi pubblicamente).
Non sorprende quindi che a Cologno Monzese si guardi con apprensione a qualsiasi mossa di Palazzo Chigi: soprattutto allorché l’europeizzazione del gruppo via Mfe è in pieno svolgimento. Ma non devono essere meno tesi i nervi della premier: certamente disturbata anche – nelle ultime ore – dalla notizia della ridiscesa in campo di Letizia Moratti, come leader di Forza Italia. Una carta, quella di un partito eternamente “fondato da Silvio Berlusconi” che la figlia-erede desidera evidentemente giocare almeno per i quattro (teorici) anni residui della legislatura.
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