In attesa che domani l’Istat illustri in conferenza stampa i dati sulla povertà di tutto il 2022 può essere utile commentare quelli sull’occupazione resi noti dall’Inps con riferimento ai primi sette mesi dell’anno scorso. Ciò anche al fine di poter osservare le variazioni intervenute da agosto in poi. L’Inps, poi, fornisce statistiche articolate per diverse tipologie di rapporti di lavoro e quindi rende possibile valutarne la qualità in un contesto in cui il dibattito – e magari un possibile sciopero generale – individua nell’eccessiva precarietà uno dei limiti più gravi presenti nel mercato del lavoro. Si parla di “precariato” come se fosse una condizione economico-sociale riferibile a una struttura di caste, tanto che persino l’Inps non si sottrae al vezzo di intitolare i rapporti periodici sul mercato del lavoro “Osservatorio sul precariato”, come se questa fosse la caratteristica dominante. In realtà i trend forniscono elementi di riflessione ai “profeti di sventura”, che si ostinano nel descrivere la realtà come una notte in cui “tutte le vacche sono nere”.
La dinamica dei flussi
Complessivamente le assunzioni attivate dai datori di lavoro privati fino a luglio di quest’anno sono state 5.063.000, in leggerissima flessione rispetto allo stesso periodo del 2022 (-0,6%), dovuta agli andamenti delle assunzioni di contratti in somministrazione (-7%), a tempo indeterminato (-6%) e in apprendistato (-3%). Per le altre tipologie contrattuali si registra una leggera crescita: lavoro intermittente +3%, stagionali +2% e tempo determinato +2%. Tuttavia, le trasformazioni da tempo determinato nel corso nei primi sette mesi del 2023 sono risultate 471.000, in aumento rispetto allo stesso periodo del 2022 (+5%). Contemporaneamente le conferme di rapporti di apprendistato giunti alla conclusione del periodo formativo sono risultate in flessione (-18%). Le cessazioni fino a luglio del 2023 sono state 3.909.000, in diminuzione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (-2%). Concorrono a questo risultato i contratti a tempo indeterminato (-7%), i contratti in somministrazione (-7%) e i contratti in apprendistato (-5%). In controtendenza risultano i contratti a tempo determinato (+1%), i contratti stagionali (+3%) e quelli di lavoro intermittente (+3%).
La consistenza dei rapporti di lavoro
Il saldo su base annua, a luglio 2023 si registra un saldo positivo pari a 478.000 posizioni di lavoro, confermando sostanzialmente il livello costantemente osservato da febbraio (tra 450.000 e 500.000 unità). Per il tempo indeterminato la variazione risulta pari a +369.000 unità, mentre per l’insieme delle altre tipologie contrattuali la variazione è pari a +109.000 unità (dettagliatamente: +36.000 per i rapporti a tempo determinato, 31.000 per gli intermittenti, +30.000 per gli apprendisti, +15.000 per gli stagionali e -1.000 i somministrati).
I rapporti in somministrazione
Nel corso dei primi sette mesi del 2023, rispetto al corrispondente periodo del 2022, le assunzioni in somministrazione sono aumentate per i contratti a tempo indeterminato (+6%), mentre sono diminuite significativamente quelle a termine (-8%). Anche per le cessazioni si rileva un aumento per i contratti a tempo indeterminato (+9%) e una flessione per i contratti a termine (-8%). Il conseguente saldo su base annua – e quindi la variazione tendenziale – è risultato negativo a luglio 2023 (-1.100), esito algebrico di una tendenziale flessione delle posizioni di somministrazione a tempo indeterminato (-4.000) e di un incremento di quelle a termine (+3.000).
Il lavoro occasionale
La consistenza dei lavoratori impiegati con Contratti di Prestazione Occasionale (CPO) a luglio 2023 si attestava a poco più di 18.000 unità, in aumento del 18% rispetto allo stesso mese del 2022; confermando un trend in atto dall’inizio del 2023 l’importo medio mensile lordo della remunerazione effettiva risulta pari a 299 euro, anch’esso in tendenziale incremento. Per quanto attiene ai lavoratori pagati con i titoli del Libretto Famiglia (LF), a luglio 2023 essi risultano circa 9.000, in diminuzione dell’8% rispetto a luglio 2022; l’importo medio mensile lordo della loro remunerazione effettiva risulta pari a 179 euro. Non è il caso di sottolineare la modesta entità delle remunerazioni visto che si tratta pur sempre di lavoro occasionale.
Le agevolazioni ai rapporti di lavoro
Le attivazioni di rapporti di lavoro incentivati nel corso dei primi sette mesi del 2023 – considerando quindi sia le assunzioni che le variazioni contrattuali – presentano complessivamente una variazione pari al -3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In particolare gli esoneri contributivi totali per i giovani e le donne hanno registrato un’importante flessione rispetto allo stesso periodo del 2022: su ciò – secondo l’Inps – ha influito la circostanza che la Commissione europea ha autorizzato solo a giugno l’attivazione degli esoneri in oggetto. L’agevolazione “Decontribuzione Sud” ha segnato ancora una crescita (+5%) confermandosi come l’agevolazione di maggior impatto, quantomeno per il numero di dipendenti coinvolti.
I dati sulla povertà
In attesa del Rapporto Istat, il vice direttore del Dipartimento economico della Banca d’Italia, Andrea Brandolini, studioso attento da decenni del fenomeno della povertà, mette in guardia, in un articolo, sull’uso dei “difficili dati della povertà e della diseguaglianza”, evidenziando come – anche a livello delle istituzioni competenti – si possa incorrere in errori. Brandolini ricorda che il 20 ottobre è stato pubblicato da Eurostat un compendio con le principali statistiche sulle condizioni di vita in Europa. Erano le stesse informazioni che l’Istat aveva diffuso il 14 giugno per le sole famiglie italiane. Allora un quotidiano aveva titolato “In Italia cresce la diseguaglianza, a rischio povertà 1 cittadino su 4”, mentre un altro aveva scelto “Macché ripresa: un italiano su 4 resta ancora a rischio-povertà”. Il giorno successivo era apparso su un’altra testata un articolo di replica, “Le accuse al governo sull’aumento delle disuguaglianze sono infondate e non spiegano perché i lavoratori votano Meloni”, in cui, correttamente, si notava che non era vero che la disuguaglianza fosse cresciuta secondo i dati dell’Istat, ma, erroneamente, si attribuiva l’ultimo dato al 2022 anziché al 2021. Brandolini spiega, poi, come possono intervenire certi equivoci. Soprattutto quando fanno comodo nella polemica politica.
L’Istat fin dagli anni Ottanta misura la povertà utilizzando non i redditi, ma i consumi: la “povertà relativa” prende come riferimento per la soglia di povertà il valore medio della spesa per consumi, mentre la “povertà assoluta” (calcolata dal 1998) utilizza come soglia il costo di un paniere di beni e servizi essenziale per conseguire uno standard di vita socialmente accettabile, rivalutato di anno in anno per l’inflazione. Poiché la composizione di questo paniere tiene conto delle caratteristiche familiari e il suo costo riflette il livello dei prezzi del territorio in cui la famiglia risiede, la linea di povertà assoluta varia per numero ed età dei componenti, ripartizione geografica e tipo di comune.
Nel 2021 la soglia relativa per una persona sola – prosegue Brandolini – era uguale a 629 euro mensili, mentre quella assoluta variava tra 511 euro per un anziano di 75 o più anni residente in un piccolo comune del Mezzogiorno e 853 euro per un adulto abitante di una grande città del Nord. Tra il 2020 e il 2021, l’incidenza della povertà relativa è passata dal 13,5% al 14,8%, mentre quella della povertà assoluta è rimasta invariata al 9,4%. Sono valori diversi nel livello e nella dinamica da quelli basati sul reddito.
Non va dimenticato, poi, che il biennio 2020-21 è stato stravolto dalla pandemia e i comportamenti di consumo sono mutati per effetto dei lockdown e delle precauzioni adottate per evitare il contagio, con conseguenze inevitabili, ma non semplici da valutare, per la misurazione dei tassi di povertà basati sulla spesa per consumi. In quest’ultimo caso – chiarisce Brandolini – lo standard di vita viene messo in relazione con la quantità di beni e servizi acquistati per consumo; l’indicatore-reddito misura la capacità di spendere indipendentemente dalle scelte effettive di consumo, evitando di considerare come privazione i casi in cui un più basso livello di consumi deriva dallo stile di vita. Ne deriva che una famiglia che, preoccupata per la crisi sanitaria, ha risparmiato nel tenore di vita rischia di apparire impoverita.
Ecco quindi spiegato il suggerimento di usare cautela e di considerare più dati con riguardo soprattutto agli effetti politici di questa narrazioni. Nonostante i molti indicatori – conclude l’autore -, la netta stratificazione della povertà in Italia per età, area geografica e cittadinanza appare inequivocabile. Possono differire le indicazioni quantitative, ma non cambia il quadro qualitativo. Nel 2021 era in condizione di povertà assoluta il 5% degli individui che vivevano in famiglie di soli italiani nel Centro Nord, l’11% di quelli in famiglie di soli italiani nel Mezzogiorno e il 29% di quelli in famiglie con uno o più componenti stranieri residenti su tutto il territorio nazionale. Inoltre, alla faccia di chi si preoccupa dei pensionati, le condizioni dei bambini erano sempre peggiori di quelle degli adulti e degli anziani, ma molto diverse tra i tre gruppi: era povero un bambino ogni 16 nelle famiglie di italiani del Centro Nord, uno ogni 7 nelle famiglie di italiani del Mezzogiorno e più di uno ogni 3 nelle famiglie con stranieri.
Si dimostra così – è una nostra considerazione – che al solo scopo di criticare il Governo in carica e di rispondere all’assillo di piangerci addosso, finiamo per annettere la povertà degli altri (come gli stranieri) alle famiglie italiane.
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