Cosa si prova a vivere in una cella? L’Università Bicocca di Milano ha pensato di mettere in atto l’esperimento per far capire agli studenti cosa si prova a restare rinchiusi in uno spazio di 2 metri per 4. L’iniziativa è stata ideata e curata da Maria Elena Magrin, professoressa di Psicologia Giuridica dell’ateneo. La docente è inoltre supportata da una studentessa laureanda di 23 anni, Olivia Serio, che accompagna i visitatori nella ‘finta’ cella, data in prestito ma di appartenenza della Caritas Ambrosiana e costruita per il progetto “Extrema Ratio”, dove vi rimarranno per un tempo massimo di 5 minuti. Un periodo sufficiente per capirne le difficoltà, le ansie e ogni altro stato d’animo.
“Un’esperienza immersiva” come è stata definita, che porta il pensiero alle carceri italiane. Perchè se si pensa che vivere in uno spazio così ristretto sia impossibile, in realtà sono le metrature a disposizione dei detenuti delle carceri italiane. E spesso in ambienti così ridotti convivono anche fino a 4 detenuti.
STUDENTI DELL’UNIVERSITÀ BICOCCA IN CELLA: “LA GENTE NON SA NULLA DEL CARCERE”
Dopo aver provato la sensazione di vivere stipati in veri e propri scantinati i ragazzi ne escono pieni di dubbi. E a rispondere alle loro domande ci sono proprio le autrici della simulazione, la laureanda Olivia Serio e la Prof. Magrin, che hanno spiegato nell’intervista rilasciata a Repubblica, i risultati dell’esperimento e le ragioni che hanno condotto a questa riproduzione. Innanzitutto l’esperimento, condotto sugli universitari, è aperto a qualunque altro cittadino che voglia prenderne parte. Inoltre, come fanno sapere, la cella ricreata è dotata di una maniglia interna (cosa che nella realtà, per ovvie ragioni, non esiste), e già questo elemento è sinonimo di libertà.
Come ha raccontato la prof. Magrin, “è un’esperienza semplice, ma forte, e apre dei pensieri. La gente non sa niente del carcere”. Perciò è utile provare a lasciare gli oggetti vietati (il telefono), o pericolosi (i lacci delle scarpe, la cintura), i soldi, i gioielli. Entrare poi (in quattro) e sedersi, solo su uno sgabello, o le brande dove si sta con la testa storta, ingobbiti, scomodi, rassegnati. E poi ancora il neon acceso, manca solo l’odore tipico della galera, poi tutto è ricreato alla perfezione. E tutto è abbastanza sporco, e soprattutto squallido. Insomma un’esperienza che porta a riflettere, soprattutto le giovani generazioni che spesso, in molti atenei, hanno anche compagni detenuti senza neanche saperlo.