La Cina e la Russia hanno la stessa posizione sulla questione palestinese. Questo è quanto ha dichiarato Zhai Jun, l’inviato speciale del governo cinese per il Medio Oriente a conclusione della tappa qatariota della sua missione diplomatica, durante la quale ha incontrato il suo omologo russo Mikhail Bogdanov. Inoltre, Zhai ha anche sostenuto che la causa principale della crisi in corso è la mancanza di garanzie dei “legittimi diritti nazionali del popolo palestinese”.
Dichiarazioni che non lasciano dubbi circa le interpretazioni e che ripetono lo schema adottato per la guerra in Ucraina, ovvero una ambigua neutralità che in realtà si traduce in una sostanziale vicinanza a uno dei contendenti. La freddezza della diplomazia israeliana nei confronti della Cina è sicuramente un altro inedito di questa fase. I rapporti economici fra Cina e Israele prima della crisi in corso non erano mai stati così stretti e rappresentavano per Pechino una preziosa fonte di tecnologia, ma, come fanno notare gli analisti più avveduti, la logica di potenza ha avuto la meglio su quella economica.
In definitiva, Pechino ha ritenuto prioritario accreditare la narrazione che la rappresenta nello scenario mediorientale come garante degli interessi dei Paesi arabi e a livello globale di chi contesta la leadership americana. Una narrazione legittimata dalla storica vicinanza dei cinesi alla causa palestinese che risale al 1965, quando la Cina fu il primo Paese non arabo a riconoscere la Palestina, una scelta di campo ammantata di neutralità resa palese dal fatto che non ha condannato l’attacco di Hamas. Pechino sembra intenzionata a capitalizzare gli errori degli americani e a impegnarli in un altro teatro distraendoli da Taiwan. Le difficoltà degli americani sono evidenti, non sembrano in grado di predisporre un piano di pace per la regione e soprattutto non hanno la forza di imporre a Israele un cambio di rotta.
La Cina non ha alcuna capacità di garantire un nuovo equilibrio regionale, ma sfrutta l’occasione per giocare una partita su due tavoli, ovvero auto-rappresentarsi come la potenza capace di stabilire un ordine alternativo agli Usa e, al contempo, contendere all’India la leadership fra i Paesi non occidentali. Se all’equazione aggiungiamo i rapporti strettissimi fra India e Israele e l’antagonismo fra la Nuova via della seta cinese e la Via delle spezie indiane, due reti infrastrutturali concorrenti in termini commerciali e geo-economici, vediamo quanto il teatro mediorientale sia il campo nel quale confliggono interessi diversi che al momento escludono una mediazione. Abbiamo più volte detto che il processo che porta alla costruzione di due blocchi contrapposti richiede tempo ed era da intendersi come il punto di arrivo di una complessa transizione, caratterizzata da crisi di varia natura.
La crisi in corso è una delle tappe che porterà alla formazione di due blocchi, un processo che dividerà anche il Medio Oriente; non sembra un caso che l’attacco di Hamas abbia definitivamente liquidato gli accordi di Abramo e il riavvicinamento fra Arabia Saudita e Iran, le ultime due speranze per raggiungere un nuovo equilibrio per la regione. Al momento, l’unica carta che gli Usa possono giocare è quella di evitare l’escalation, tenendo fuori dal conflitto l’Iran, un’impresa che sembra ogni ora sempre più problematica e il cui fallimento avvantaggerebbe chi li vorrebbe impantanatati in un’altra crisi da cui è difficile uscire.
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