Il problema che affligge il nostro tempo è l’illusionismo. È un fenomeno complesso che nasce dalla deriva prodotta dal nichilismo gaio. Un’intera generazione ha vissuto per anni una realtà liquida, fatta da discorsi conviviali sul che cosa ho mangiato, che viaggi ho fatto, che foto ho postato su Facebook. Essa ha maturato l’idea per sé e per i figli che tutto sarebbe stato sempre così, cioè a costo zero o minimo acquistabile, comunque. Si tratta di un’intera fetta della società che ha divorziato dalla generazione dell’impegno, tante volte ideologico, e da quella ancora precedente basata sulla disciplina. Ma che cos’è questa mentalità, in concreto, e quali sono le sue declinazioni?
L’illusionismo sovrappone le sue attese pretenziose, i suoi desideri mentali, le sue finte certezze alla realtà. Si esprime con un dover essere gaio e tranquillizzante, ben espresso dal mantra “andrà tutto bene”, anzi no, “deve andare tutto bene”. I figli non devono incontrare ostacoli nella loro crescita che potrà procedere come in un’autostrada con poche macchine e larghe corsie. Perciò, gruppo classe compatto in cui non si litiga mai, docenti sempre contenti che non sgridano nessuno e possibilità di socializzare per i corridoi con jeans stracciati e ombelico in bella vista. Insomma, la scuola del Mulino Bianco. E poi il sabato sera via libera su tutto, perché i genitori sono compagnoni che danno obblighi minimi concordati.
L’illusionismo è stato accolto da dirigenti sensibili e da pedagogisti attenti. Scuola senza zaino, scuola senza libri di testo e ora scuola senza voti. Lo zaino è troppo pesante. I libri di testo presentano paroloni difficili che il tablet semplifica. I voti generano ansia e stress in una generazione fragile e delicata, perciò vanno aboliti o sostituiti. Insomma la scuola e la vita devono togliere ostacoli e difficoltà.
Capita, perciò, a tanti docenti di leggere nuove certificazioni in cui lo psicologo scrive che lo studente non è DSA, ma è al limite della norma oppure che va dispensato da verifiche scritte nelle lingue straniere. Non parliamo poi delle invasioni di campo nei ruoli. Genitori diventati professori di matematica o mamme ipercritiche su tutto. E poi la minaccia latente o espressa del fatidico ricorso con la conseguente iper-burocratizzazione delle carte da compilare sul registro elettronico.
Il problema vero però non è l’illusionismo, ma l’incapacità di guardarlo. Qual è il soggetto che può dire che nella scuola e nella vita si fa fatica e talvolta si perde? Non certo i nostri pedagogisti, che per anni hanno spostato il dibattito su questioni anche importanti, ma non centrali: flipped classroom, docimologia, facilitazione dell’apprendimento, multimedialità come bacchetta magica. E neanche quegli studiosi attenti e anche bravi del ministero che hanno proposto una serie di educazioni: alimentare, all’immagine, alla legalità, sanitaria, ecc. La loro azione nobile ha creato delle dimensioni slegate le une dalle altre, dimenticando l’unità del soggetto.
Adesso è necessario che la crisi educativa sia guardata in tutta la sua portata dai filosofi e anche dai politici. I filosofi, infatti, hanno una lettura profonda della realtà, non appiattita sulle soluzioni tecniche o sulle iniziative valide esteriormente. I politici, invece, hanno la possibilità di cercare un nuovo grande patto nazionale, volto a considerare educazione e istruzione come interesse strategico per l’Italia. Per troppo tempo, infatti, la scuola è stata messa in secondo piano. Ma non è stato sempre così. Ricordiamo alcuni nomi di chi, in passato, ha guardato la scuola: De Sanctis, Croce, Gentile.
E ora che fare? Non si tratta, certamente, di vezzeggiare o approvare i tre “senza”: senza zaino, senza libri, senza voti. Bisogna, invece, cercare di essere accanto agli studenti, davvero. La scuola è faticosa come la vita. I docenti possono esserci, ma non per assecondare le illusioni. Possono provare, con il loro limite, ad introdurre gli studenti alla realtà e ad accettare la frustrazione. Non è poco.