Le Borse sono molto contente delle grandi banche italiane, che gliene stanno dando buoni motivi. I conti del terzo trimestre di UniCredit e Intesa Sanpaolo sono stati molto positivi e confermano le attese di profitti annuali in netto rialzo sul 2022: che già aveva registrato fortissimi recuperi sui due anni bui della pandemia. Naturale che i titoli siano sulla cresta dell’onda in Piazza Affari (la quotazione di UniCredit è quasi tripla di quella di due anni fa). Entrambi i Ceo – anche se con accenti diversi – hanno promesso nuove soddisfazioni agli investitori loro “shareholder”: sia sotto forma di dividendi, sia di resilienza o ulteriore miglioramento del valore di mercato.
Fra gli “stakeholder” dei gruppi bancari – i portatori di interessi diversi dagli azionisti – a essere di umore accettabile sono sicuramente i dipendenti. A quelli di Intesa Sanpaolo il Ceo Carlo Messina ha comunicato che intende riconoscere in pieno la richiesta avanzata dalle organizzazioni sindacali (una progressione media di 435 euro in tre anni), dando così spessore alle aspettative di chiusura veloce del nuovo contratto nazionale: al di là delle distanze che ancora sussistono in sede Abi, principalmente con UniCredit. La posizione di Intesa è comunque leggibile: il balzo della redditività bancaria – reso possibile principalmente dal prolungato decollo dei tassi d’interesse deciso dalle banche centrali in funzione anti-inflazione – deve spalmarsi in misura congrua anche sulle retribuzioni dei dipendenti (tutti, non solo i manager).
Chi invece attende ancora un aggiustamento delle “ragioni di scambio” con le imprese bancarie sono i loro clienti. Il robustissimo allargamento dei margini d’interesse discende sia dal fatto che le banche continuano a non remunerare la liquidità nei depositi, sia dall’applicazione puntuale di aggravi di tassi sui prestiti: anzitutto sui mutui per l’acquisto di case d’abitazione. Solo ora i grandi intermediari hanno preso a offrire formule “conti deposito”; ma spesso in via selettiva: per nuova liquidità versata (non per quella esistente) oppure per depositi consistenti e quasi sempre con la condizione di sottoscrivere anche prodotti di risparmio gestito.
Difficilmente, tuttavia, il fronte bancario si sarebbe mosso se il Mef non avesse iniziato a lanciare emissioni di Btp tradizionali o speciali: offrendo rendimenti a copertura parziale ma effettiva dall’inflazione. L’azione ha non solo scosso gli oltre mille miliardi di liquidità ferma sui conti a beneficio delle finanze pubbliche alla fine dell’era dei “tassi zero”, ma ha anche rilanciato in via politica un’attenzione per i depositanti che era stata sollevata dalla stessa Bce. Quel che emerge dalle statistiche mensili è comunque che il risparmiatore italiano sta disimpegnandosi da fondi e polizze – costosi e rischiosi – riscoprendo i titoli governativi (per quanto non tornati sicurissimi).
L’atto più significativo di politica creditizia adottato dal Governo Meloni è stata tuttavia l’ipotesi di tassa straordinaria sugli extra-utili bancari ventilata in estate. La dinamica finanziaria era elementare: una parte degli utili “straordinari” realizzati dalle banche sul trend inflazionistico – sulla carta destinati agli azionisti privati sotto forma di cedole – sarebbero stati dirottati alle esigenze “straordinarie” della finanza pubblica, appesantita da sussidi vecchi e nuovi, L’ipotesi si è arenata sulle campagne mediatiche – principalmente internazionali – timorose che l’esempio di un Paese come l’Italia contagiasse altri grandi sistemi (non solo europei). Il compromesso – tacitamente appoggiato dalla Bce – sta consentendo ora alle banche di accantonare a riserva patrimoniale l’importo teorico dovuto al fisco. Un esito che resta politicamente debole: dietro le ragioni dell’interesse pubblico a mantenere solido il sistema bancario (a maggior ragione dopo la pandemia), resta irrisolto il nodo di imprese private che lucrano su una scelta politica onerosa, come l’adesione dell’Italia e della Ue alla “confrontation” con la Russia via sanzioni inflazionistiche.
Nel “labirinto” nel quale si muovono le banche italiane non manca il solito “convitato di pietra”: Mps, salvato dallo Stato sette anni fa e non ancora riprivatizzato.
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