Nel vasto dibattito internazionale, sin qui poco concludente sul piano della risoluzione effettiva dei conflitti, due posizioni soltanto non meritano di avere alcun credito: quelle degli agitatori di sentimenti antiarabi e antiebraici. Non è scritto nell’ineluttabilità della vita che i popoli, pur caratterizzati dagli odi più atavici, non possano affidare a un’idea del diritto l’ipotesi della convivenza. Fa strano anzi che questa evidenza storica sia oggi molto poco considerata in Europa, negli Stati Uniti e in Cina. La fioritura artistico-letteraria della Cina classica seppe scavalcare differenze linguistiche esasperanti, dietro cui si nascosero per troppo tempo rivalse etnico-dinastiche di alcuni gruppi sugli altri. L’Europa dissanguata per secoli dalle guerre di religione, e poi da un lunghissimo contenzioso franco-tedesco fino al Novecento, ha saputo darsi, benché entro confini politici molto più stretti del suo territorio fisico, decenni di concordia “politicamente assistita”. Nel patto fondativo della Costituzione americana, ancor più, la rilevanza della libertà di pensiero, coscienza e religione fu la logica conseguenza di dover garantire uno statuto giuridico uniforme a coloni che nella madrepatria avevano sovente subito restrizioni, limitazioni, repressioni.
Gli Stati e le entità tra e dentro gli Stati, in sostanza, prosperano solo se edificano la fondatezza simbolica di un metro comune. Se la voce dei popoli è preceduta dai rulli di tamburo dei banditori e dal rumore delle munizioni, la Babele è servita: tutti parlano al solo scopo di non riuscire più ad ascoltarsi. Un altro parallelismo geopoliticamente e giuridicamente fuorviante sembra quello (in voga tra editorialisti a corto di fantasia) tra la situazione ucraina e la situazione israeliana. Odessa e Tel Aviv si assomigliano più per l’antropologia culturale che per la governance e l’intelligence: città nutrite dal mare, spontaneamente immerse nell’incontro interreligioso e interrazziale, laiche, internazionaliste, e forse proprio per quello anche terre di estremismi e di umori.
Parlando del processo a Gesù, al giurista israeliano umanista Haim Herman Cohn scappava di dire che la differenza fondamentale tra la giustizia e la vendetta è nella premessa che le anticipa: la pace contro il sangue. Se l’uno è fiume, l’altra sarà una pozzanghera. Generazioni di intellettuali israeliani, in fondo, crebbero in Palestina ben prima della fine della Seconda guerra mondiale: così Moshe Landau, che presiedette il processo Eichmann a Gerusalemme. Il nazismo processato non dalla tortura del vincitore militare, ma in una corte fatta da parenti delle vittime: nel diritto odierno, così repressivo e vendicativo (persino quando si traveste nell’efficienza digitale della giustizia predittiva e dell’intelligenza artificiale), sembrerebbe impossibile.
E decine di intellettuali palestinesi hanno combattuto per la causa del loro popolo, e perorato la richiesta di uno Stato libero, iniziando nelle formazioni politiche del socialismo israeliano: Mahmoud Darwish e Samih al-Qasim, ad esempio. Non è un caso che il ponte che proponevano tra laburismo israeliano e libertà arabo-palestinese fosse la lotta alla speculazione coloniale. Dietro un anticapitalismo certamente generazionale (oggi la sinistra israeliana è all’anno zero della sua rilevanza politica), avevano insomma capito che le fratture potevano trovare composizione intorno a criteri di giustizia sostanziale: scolarizzazione, autonomie federali più che dichiarazioni di guerra e persino costituzioni rigide, riconoscendo diritti fondamentali contemporaneamente più ampi e più deboli di suprematismi e confessionismi.
Oggi parlano le parti peggiori ai lati di una scacchiera immaginaria dove concrete sono esclusivamente le perdite di vite umane. Un Israele incattivito dalla controriforma giudiziaria, dal carovita, dalla divaricazione crescente tra ortodossi e liberali; la popolazione di Gaza a libertà vigilata nel diritto internazionale, ma anche, e oggi di più, nei suoi confini interni.
La poetessa palestinese Fadwa Tuqan diceva amara che il sudore per la sopravvivenza riempie gli occhi di sale. Non ci muoveremo d’un passo finché anche solo uno avrà lo sguardo immerso nelle saline, e non rivolto all’orizzonte.
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