Il pericolo di un allargamento del conflitto resta immutato. È vero che, a rigor di logica, nessun Paese dell’area mediorientale ha interesse a scendere in guerra, ma è altrettanto vero che tra Hezbollah in Libano, Houthi nello Yemen e altre milizie, tra cui alcune irachene, Israele viene messo sotto pressione da forze che vengono sostenute dall’Iran.
Teheran, però, spiega Carlo Jean, generale, esperto di strategia, docente e opinionista, mantiene un doppio binario. Non può esimersi dallo schierarsi con i palestinesi per salvare la faccia di fronte al mondo islamico e ad Hamas (altra formazione armata che sostiene), ma neanche essere coinvolto direttamente: metterebbe a rischio le sue attività a partire dai terminali petroliferi nel Golfo Persico. Che potrebbero diventare un bersaglio di Usa e Israele. E allora manda avanti altri attori perché attacchino Israele per interposta persona.
Nessuno, comunque, può pensare a cuor leggero di entrare in guerra apertamente: Israele resta l’unica potenza nucleare dell’area e questo, in termini di deterrenza, conta ancora molto.
L’IDF, intanto, prosegue l’azione di terra a Gaza, dove ha cominciato a entrare nella città con l’intento di bonificarla da Hamas. Per gli uomini dell’organizzazione terroristica palestinese l’alternativa è rimanere rintanati senza possibilità di rifornirsi oppure uscire e venire intercettati dagli israeliani che li attendono fuori dai cunicoli chilometrici che hanno realizzato per difendersi. Almeno questo sarebbe, nella sostanza, il piano per neutralizzarli. Oltre che distruggere tutte le loro strutture logistiche e militari.
Gli Houthi, sostenuti dall’Iran, hanno rivolto i loro missili verso Israele, lanciandoli nella zona di Eliat e hanno anche dato il via ad attacchi con i droni. Quanto è pericoloso questo intervento nel conflitto?
L’Iran ha fornito agli Houthi missili molto più potenti dei sistemi a disposizione di Hamas. Non sono come i razzi Kassam, hanno una potenza molto superiore e possono percorrere 1000-1500 chilometri. Anche se quelli israeliani hanno una gittata ancora più lunga. Gli israeliani per ora non rispondono ai loro attacchi perché vengono intercettati dagli USA, grazie ai cacciatorpedinieri che sono nella zona e che aiutano Israele nella sua difesa.
Si dice che l’Iran non abbia interesse a essere coinvolto nel conflitto con Israele. Intanto però gli iraniani hanno rifornito di armi gli Houthi. Anche le milizie irachene hanno attaccato basi degli USA. Qual è la vera posizione di Teheran? Qual è la strategia che sta dietro questo modo di “fare la guerra”?
Non vogliono essere coinvolti nel conflitto, ma non possono neanche fare finta di niente di fronte al mondo islamico. Quindi sostengono forze come gli Houthi, Hezbollah, alcune milizie irachene. Ci dono milizie che fanno riferimento all’Iran anche in Siria, sulle alture del Golan. E milizie scelte come quelle dei pasdaran iraniani.
Quindi alla fine non interverranno?
Devono salvaguardare le loro attività petrolifere e i terminali che trasportano il petrolio nei porti del Golfo Persico. Non possono permettersi di correre il rischio di venire coinvolti nella guerra e per rappresaglia venire attaccati in queste aree vitali. Per tutti i Paesi della zona è un rischio intervenire, nessuno vuole andare contro Israele: bisogna ricordarsi che è una potenza nucleare. Ed è l’unica nella zona ad esserlo.
Il segretario di Stato USA Anthony Blinken, intanto, torna nuovamente in visita da Netanyahu. Gli americani da un lato chiedono attenzione per i civili a Gaza, ma dall’altro sembrano assecondare Israele in tutto dal punto di vista militare. Qual è la ragione di questo doppio registro?
Gli americani devono rendere conto a una parte della loro opinione pubblica: ci sono molte proteste, soprattutto nelle università americane, contro il trattamento riservato ai civili a Gaza. Dall’altra parte però non possono non sostenere Israele in questo momento. Gli israeliani non possono avere migliaia di terroristi in un territorio vicino e rischiare un’altra azione come quella del 7 ottobre. Per loro fermarli è una questione di vita o di morte. Per questo motivo gli americani, al di là delle dichiarazioni, non possono metter loro i bastoni fra le ruote: li assecondano nelle operazioni che stanno svolgendo. Riguardo alle opinioni pubbliche internazionali non capisco perché si straccino le vesti solo per gli effetti dei bombardamenti a Gaza e non per quelli in Ucraina, dove la violenza del fuoco e le conseguenze per la popolazione sono simili.
Gli israeliani, nel frattempo, stanno entrando in Gaza City: cosa comporterà l’operazione di bonifica da Hamas della città?
Gli israeliani colpiranno tutte le strutture di Hamas cercando di uccidere miliziani e capi. Non interverranno direttamente nella rete di 300-400 chilometri di tunnel che sta sotto la città, rischierebbero inutilmente troppe perdite. Punteranno a controllare le entrate e le uscite. I miliziani di Hamas qui avranno di fronte due alternative: restare nei tunnel e morire come topi o uscire e venire intercettati dall’IDF.
Quanto tempo ci vorrà?
Il tempo necessario. Gli israeliani dovranno essere sicuri di aver neutralizzato Hamas. Per contro mi stupisco che finora non abbiano ancora pensato a un’altra cosa.
Che cosa?
Dovrebbero mettere in atto altre iniziative per allentare la pressione internazionale relativa agli effetti che l’operazione di terra sta avendo sui civili. Potrebbero consentire un accesso più sicuro alle cure mediche, agli ospedali, oppure programmare delle evacuazioni per evitare che gli abitanti di Gaza vengano coinvolti nelle azioni militari. Interventi per mostrare al mondo che non sono spietati come vengono accusati di essere. Per me avrebbero dovuto già farlo.
Intanto il numero degli ostaggi aumenta di ora in ora. L’ultima stima parla di 242. L’operazione di terra potrebbe rendere più difficile la loro liberazione?
Che siano 242 o un altro numero non cambia molto: restano un problema difficile da risolvere. Gli israeliani devono stanare Hamas dai tunnel, ma li potrebbero esserci anche degli ostaggi: corrono il pericolo di perderli. D’altra parte questa per loro, come dicevo, è un’operazione di vita o di morte, non possono fermarsi, quindi mettono in conto che possa succedere qualcosa anche a loro. Israele comunque fa già i conti con 1500 morti.
(Paolo Rossetti)
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