Con i suoi atti di coraggio, oggi il popolo iraniano fa finalmente notizia anche nel nostro Occidente distratto. Ma la violenza e le assurdità del regime degli ayatollah non fermano un popolo amante della libertà e della pace. Luminosi esempi sono l’attivista iraniana per i diritti delle donne Narges Mohammadi, a cui è stato assegnato il premio Nobel per la Pace 2023, arrestata più volte e attualmente in carcere, o Jina Mahsa Amini, che ha ricevuto il premio Sacharov alla memoria per la libertà di pensiero proprio per la sua audacia, che le è costata la vita un anno fa dopo una durissima detenzione – poco più che ventenne – per aver ignorato le rigide leggi sull’uso del velo.
Sono seguite clamorose manifestazioni di rabbia guidate da donne in tutto l’Iran, che si sono scagliate contro la legge dello hijab e altre norme discriminatorie al grido “Donna, vita, libertà”. Questo spiega la vigorosa protesta internazionale che ha scatenato la recentissima assegnazione della presidenza del Forum sui diritti umani delle Nazioni Unite proprio a Teheran, sicuramente inadatta all’incarico, visti i suoi record di oppressioni, torture ed esecuzioni. Sembra quasi una barzelletta questa decisione del Palazzo di Vetro.
Il tono dell’ironia sottile è proprio quello del coraggioso film Kafka a Teheran, che condanna il feroce regime totalitario degli ayatollah mettendo alla berlina i suoi solerti e un po’ viscidi funzionari. Questi non vengono mai inquadrati dai registi, ma sono presenti in modo capillare in ogni risvolto della vita quotidiana, esercitando un’oppressione costante dai tratti paradossali e insieme drammatici, risultando sempre comunque invasivi. La scena iniziale della pellicola è una panoramica su una Teheran moderna, costellata da grattacieli e minareti, a cui non corrispondono però gli ambienti chiusi modesti degli uffici, in cui gli sventurati cittadini dell’immensa città devono risolvere i loro piccoli problemi di tutti i giorni, sottoponendosi a regole rigide e apparentemente insensate. Così assistiamo a conversazioni botta e risposta, con qualche tentativo di ragionamento più sottile, a volte esilaranti, pur nell’esito scontato della sconfitta davanti a un’autorità ottusa ma irremovibile nelle sue scelte indiscutibili. Anche quando si tratta semplicemente di scegliere il nome di un neonato.
Una decina di episodi con i protagonisti davanti alla macchina da presa che discutono col rappresentante del potere di turno, che non vediamo mai, per un permesso, una giustificazione, un’opportunità. C’è la ragazza ossigenata e con i capelli corti, a cui è stata sequestrata l’auto che le serve per il lavoro, perché è stata immortalata da una telecamera di sicurezza mentre guidava senza velo. Lei contesta la fotografia che non le si voleva mostrare, assicurando che il guidatore era in realtà il fratello che porta i capelli lunghi. Ma non le credono, deve portare in ufficio il fratello per verificare… Oppure troviamo la ragazzina preadolescente, che balla libera in jeans e maglietta in un negozio di abbigliamento dove comprerà gli abiti sempre più coprenti, velo compreso, con i quali dovrà iniziare il nuovo anno scolastico: solerte e ipocrita la commessa nel magnificare la bellezza della nuova ingombrante “bardatura” e impotente e rassegnata la mamma, che finché ha potuto ha lasciato alla ragazzina la libertà di muoversi e di vestirsi come voleva.
Più angosciante il confronto del giovane che vorrebbe semplicemente rinnovare la patente, ma si trova invischiato nella trappola dei versi anticonformisti che si è tatuato sul corpo: dovrà spogliarsi davanti a un piccolo burocrate (che non ha volto) per ottenere forse ciò per cui è entrato in quell’ufficio. E davvero tormentoso è il dialogo, dai tratti appunto kafkiani, del regista che non riesce a vedere approvato il copione della sua opera, destino che i due autori del film hanno vissuto sulla propria pelle, e che ora non sono autorizzati a produrre più nulla. Ma chi ci impietosisce maggiormente sono il pover’uomo non più tanto giovane che cerca disperatamente lavoro, ma non conosce abbastanza i versetti del Corano per ottenerlo, o la signora anziana a cui hanno tolto il cane che le faceva compagnia, ma che in realtà non poteva tenere per legge. Vignette da guardare sorridendo amaramente, ma con la coscienza di assistere alla vita di una società in trappola, che il film descrive con l’obbiettivo chiaro di una denuncia sociale arguta e sconsolata.
Arrivato nelle sale dopo essere stato presentato al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, il film Kafka a Teheran risulta di particolare attualità in un momento in cui l’Iran, con il suo appoggio incondizionato ad Hamas, mostra il suo volto di regime autoritario e violento. La denuncia ironica ma ugualmente sferzante dei soprusi e delle ingiustizie che i cittadini iraniani subiscono ogni giorno rappresenta dunque una forma di resistenza della popolazione contro quello Stato teocratico e totalitario, che ci fa sperare e che dovremmo in tutti i modi sostenere. E forse la scena finale della moderna Teheran scossa dal terremoto, mentre un alto burocrate che rappresenta il Potere sonnecchia impunemente, è il grido di allarme e di speranza che ci trasmettono i registi, ai quali adesso è stato vietato di realizzare film “fino a nuovo ordine”, ma che sanno di aver compiuto il loro dovere.
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