“I francesi che s’incazzano”, cantava Paolo Conte strizzando l’occhio alle tifoserie del mondo ciclistico. Ma stavolta sembra che i francesi siano arrabbiati sul serio, tanto da far intendere un contenzioso giudiziario che, stando allo storico, non sarà destinato a soluzioni rapide. Cosicché la Borsa, sempre fin troppo sensibile agli umori di mercato, presenti o ipotizzabili, ieri ha fatto ballare il titolo Telecom Italia TIM sulle onde, titolo che aveva aperto al rialzo per scendere in fondo al FTSE Mib subito dopo, per poi tentare un rimbalzo e ridurre la perdita al 2%, una volatilità che sembra motivata proprio dal probabile scontro con Vivendi, che rischierebbe di dilatare i tempi previsti per il closing della cessione annunciata, fissato per la prossima estate.
Il sasso. L’ha tirato domenica il cda di TIM (al terzo giorno di riunioni non esattamente scontate), approvando a maggioranza (11 a 3) l’offerta vincolante del fondo americano Kkr per l’acquisto della rete fissa di TIM, la NetCo, una decisione – ha precisato il cda – che risulta di sua esclusiva competenza, quindi non suscettibile al vaglio dell’assemblea societaria. Qui insiste il vulnus sostenuto dai francesi di Vivendi, che sono anche soci di TIM (al 23,75%) e che lamentano di non essere stati minimamente informati. Così come gli altri azionisti, dei quali non è stato richiesto il voto. Ignorate anche – dicono i francesi – le frequenti richieste rivolte al cda, ai sindaci e alla Consob per “tutelare gli azionisti e prevenire tale situazione pregiudizievole”. “Il consiglio di amministrazione di TIM – riporta una nota di Vivendi – ha così privato ciascun azionista del diritto di esprimere la propria opinione in assemblea, nonché del relativo diritto di recesso per gli azionisti dissenzienti”. La società giudica quindi illegittima la decisione del cda di TIM e si dice pronta a ricorrere ai mezzi legali per impugnarla. Va detto che l’offerta consisterebbe in circa 20 miliardi di euro, che molti considerano insufficienti, e che oltre ai tre consiglieri che hanno votato contro va segnalata anche l’assenza di Giovanni Gorno Tempini, presidente di Cassa depositi e prestiti (Cdp è azionista di TIM ma anche del principale concorrente di TIM, Open Fiber, con il quale la TIM di Kkr potrebbe considerare una sinergia).
Gli asset. Non è facile stimare l’esito di un probabile procedimento giudiziario. Molto più semplice comprendere le motivazioni del colpo di mano del cda di TIM: solo nell’ultimo mese proprio le incertezze sulla cessione di NetCo avevano già causato una perdita del 10%. Una volta accettata la vendita a scorporo, è chiaro che la cessione a Kkr (operatore statunitense di private equity, specializzato nel segmento di leveraged buyout, cioè acquisizioni finanziate dal credito bancario), con l’accompagnamento di Tesoro e F2i sul versante Netco, potrebbe mitigare l’eccesso di debito che TIM si trascina. Resta invece da definire la sorte di Sparkle, la società di Telecom Italia per il routing internazionale: l’offerta dello stesso fondo Kkr stavolta non è stata ritenuta soddisfacente. Sarà compito dell’ad, Pietro Labriola, vagliare nuove proposte per un valore più elevato, sulla base della due diligence che sarà presentata entro i primi giorni di dicembre.
Lo scorporo. TIM ha precisato che adesso si procederà a un transaction agreement che disciplina il passaggio di un ramo d’azienda di TIM (rete primaria, attività wholesale e la controllata Telenergia) in FiberCop (rete secondaria in fibra e rame). Successivamente Optics Bidco (di Kkr) acquisirà la partecipazione di TIM in FiberCop. “L’offerta – sostiene TIM – valorizza NetCo, esclusa Sparkle, a un enterprise value di 18,8 miliardi di euro, senza considerare eventuali incrementi del predetto valore derivanti dal potenziale trasferimento di parte del debito a Netco e da earn-out legati al verificarsi di determinate condizioni che potrebbero aumentare il valore sino a 22 miliardi di euro”. In ogni caso, e al di là della scelta di Kkr, resta la questione di fondo: lo scorporo. “In altri Paesi le grandi imprese non dividono la rete dall’azienda, dalle attività e dai servizi. Noi pensiamo che sia un limite, un errore di politica industriale – commenta il segretario della Cgil, Maurizio Landini -. Attività fondamentali come la rete dovrebbero essere uno di quegli elementi su cui il Paese costruisce politiche industriali anche di sviluppo”. Milanofinanza riporta invece la posizione del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che ammette “che Vivendi ha i suoi diritti, ma il progetto NetCo è questo: il Governo va avanti per la sua strada”. Ovvia la soddisfazione del vero regista dell’operazione, Labriola: “Non è la conclusione del nostro percorso, ma un nuovo inizio – ha commentato -. Con questa operazione, diamo linfa all’infrastruttura di rete e allo stesso tempo consentiamo alla nuova Tim di focalizzarsi sull’innovazione tecnologica che serve per governare il complesso mercato dei servizi digitali e giocare un ruolo da leader. Stiamo restituendo a Tim la possibilità di guardare ad un futuro sostenibile e di essere pronta a cogliere le opportunità che avrà davanti”.
La storia infinita. L’approdo di TIM a Kkr somiglia molto (troppo) a quello di ITA a Lufthansa: sono entrambi gli epiloghi (a questo punto inevitabili) di decenni di inefficaci politiche industriali. Nel caso di TIM, gli anni sono almeno 24, una china che si può far risalire alla frenesia da privatizzazione che portò il Governo del 1999 a estromettere Tesoro e BankItalia, soci di Telecom, in vista dell’Opa da 60 miliardi targata Roberto Colaninno. In breve, i nuovi arrivati incassarono l’incassabile e cedettero dopo tre anni a Pirelli, con Marco Tronchetti Provera che però s’accorse subito dei danni arrecati alla società dai suoi predecessori: nel ’98 Telecom non aveva debiti, nel 2001 il debito era doppio del patrimonio. Una zavorra che nel corso del tempo s’è andata a sommare alle marginalità erose, all’aumentata competizione dei mercati, ai deficit tecnologici sempre più evidenti. Nel 2007 fu la volta di una cordata bancaria affiancata dalla spagnola Telefonica. Ma il debito continuava a crescere, così Telecom diventò una public company, sul mercato. Nel 2016 arrivarono i francesi di Vivendi, che presero il timone non mascherando una rotta che prevedeva anche il successivo controllo di Mediaset. Il resto è storia recente, con l’offerta di Cdp e Macquaire presto archiviata e la strada lasciata libera per Kkr. Allo scorso luglio, l’azionariato di TIM risultava composto da Vivendi (23,75%), Cdp (9,81%), Gruppo Telecom Italia (0,69%), Investitori istituzionali italiani (3,75%), Investitori istituzionali esteri (44,20%), Altri azionisti (17,80%).
Comunicazioni italiane in mani straniere, insomma? Sembra di sì, ma non bisogna scandalizzarsi: come dice il giurista Sabino Cassese, in Italia gestiscono reti altri tre operatori di Tlc stranieri. È la libertà di circolazione delle imprese e dei capitali stabilita dall’Unione europea e (in mancanza di solide politiche industriali, come si diceva) anche questi sono, obtorto collo, i risultati.
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