“Il mio ottimismo è cresciuto riguardo al fatto che quest’anno riusciremo a raggiungere un accordo politico”. Con queste parole, pronunciate a margine dell’Ecofin di ieri, il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner ha lasciato intendere che la riforma del Patto di stabilità potrebbe effettivamente vedere la luce entro il 31 dicembre, evitando così il ritorno alle regole pre-vigenti dal 1° gennaio 2024. Resta da capire quali richieste della Germania e dei Paesi cosiddetti frugali verranno accolte e quali istanze dei Paesi come Francia, Italia e Spagna, che puntano a scomputare le spese per alcuni investimenti pubblici dai parametri chiave del bilancio, troveranno spazio nell’eventuale soluzione di compromesso finale. Come ci spiega l’economista Domenico Lombardi, direttore del Policy Observatory della Luiss ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, al momento le due parti “stanno ancora interagendo in modo strategico per cercare di far valere le proprie posizioni”.
Intanto, però, come si è visto dagli ultimi dati Eurostat, l’economia europea continua a rallentare…
Le prospettive congiunturali europee si vanno progressivamente deteriorando e si sta ampliando il divario con gli Stati Uniti, l’altra grande economia occidentale, che nel terzo trimestre hanno visto il Pil crescere del 4,9%. Inoltre, la politica monetaria si sta inasprendo ulteriormente in seguito alla stabilizzazione dell’inflazione, quindi è importante, in questo contesto, che la politica fiscale non diventi eccessivamente restrittiva, come invece accadrebbe se si ritornasse alle vecchie regole.
Il ritorno alle vecchie regole del Patto di stabilità e crescita avrebbe conseguenze solamente economiche?
No, perché il mancato accordo sulla riforma entro la fine dell’anno sancirebbe nei fatti una frattura politica significativa tra i Paesi membri. Segnalerebbe, inoltre, un elemento di tensione antagonistico rispetto alla stessa Commissione che già ad aprile aveva formulato una sua proposta di riforma particolarmente rilevante rispetto all’attuale versione. Dunque, la reintroduzione delle vecchie regole rappresenterebbe una sconfitta politica per l’Europa e soprattutto per la Commissione, tra l’altro in un momento in cui l’economia dell’Eurozona sta attraversando una fase di deterioramento congiunturale con un’incertezza crescente.
Se non si arrivasse a un accordo sulla riforma non sarebbe meglio prorogare la sospensione delle vecchie regole?
Alla luce del contesto internazionale, con le prospettive dell’economia mondiale che si vanno deteriorando, come segnalato dal sesto calo mensile consecutivo dell’export cinese, sarebbe sicuramente meglio un proroga della sospensione che non il ritorno tout court alle vecchie regole. Detto questo, credo che occorra enfatizzare un aspetto circa la posizione italiana nel negoziato in corso sulla riforma.
Quale?
Essendo l’Italia un Paese a elevato debito, è nel suo interesse conseguire una stabilizzazione fiscale, ma vuole farlo in un orizzonte di medio periodo, così da evitare il riproporsi degli errori che sono stati commessi in passato e le cui cicatrici sono ancora visibili sulla pelle della sua economia.
Cosa andrà evitato in un’eventuale soluzione di compromesso? Quale condizione o richiesta l’Italia farà bene a respingere?
Sicuramente la riduzione del rapporto debito/Pil dell’1% annuo che era stata chiesta dalla Germania va contro, sia nella lettera che nello spirito, alla proposta della Commissione e anche a quella che è una valutazione degli errori commessi in passato. Dobbiamo invece conseguire una flessibilità nel sentiero di aggiustamento macroeconomico rispetto al breve periodo, raggiungendo comunque dei target condivisi nel medio termine, come stabilito nella proposta di Bruxelles.
Non andrebbe bene nemmeno un target di riduzione annuo del debito/Pil inferiore all’1%?
È chiaro che il parametro si può ridurre, ma l’elemento principale su cui credo dovremo insistere è instaurare una prospettiva di medio termine, che non è compatibile con un paletto numerico annuale.
Nella proposta della Commissione non era previsto alcuno scorporo per gli investimenti pubblici. Bisognerebbe fare in modo che ci fosse almeno per quelli relativi al Pnrr?
È vero che non è previsto lo scorporo degli investimenti pubblici, ma nella proposta della Commissione vi è un criterio di flessibilità con una prospettiva di medio termine che non lo rende strettamente necessario. Chiaramente, se si andasse verso una riforma caratterizzata da paletti numerici a cadenza annuale, allora lo scorporo degli investimenti pubblici diventerebbe una questione maggiormente rilevante. A quel punto, però, si rischierebbe di arrivare a un quadro regolatorio piuttosto complesso, mentre la riforma nasceva anche dalla volontà di semplificarlo, anche perché l’esperienza internazionale dei programmi di aggiustamento macroeconomici dimostra che la complessità della condizionalità è inversamente proporzionale all’efficacia della sua applicazione.
Rispetto alla proposta della Commissione resta da capire come arrivare a determinare il punto di arrivo del sentiero di aggiustamento, perché una riduzione importante del rapporto debito/Pil nell’arco di sette anni finirebbe per condizionare anche le politiche fiscali di breve periodo.
Dal documento della Commissione si evince che questo percorso va definito sulla base di un dialogo tra Commissione e autorità nazionali in modo che sia auspicabilmente sostenibile e condiviso, auspicabilmente non imposto. Obiettivamente il potere negoziale tra la Commissione e un Paese ad alto debito non è simmetrico, quindi questo aspetto resta da chiarire. D’altro canto, è meglio un negoziato tra le parti che non un paletto di riduzione annuo del debito su Pil a prescindere dalle condizioni di contesto, che tra le altre cose rischia di incoraggiare politiche pro-cicliche nei momenti di crisi. In conclusione, credo vada ricordato anche che il dibattito sulla riforma del Patto di stabilità va inserito in un quadro più ampio.
A che cosa si riferisce?
Al fatto che la Germania si è già avvantaggiata dell’allentamento della disciplina sugli aiuti di Stato e questa flessibilità ottenuta andrebbe compensata con una riforma del Patto all’insegna della flessibilità nel breve periodo. Di fatto Berlino, dopo aver portato a casa un risultato importante, dovrebbe essere meno intransigente. Alla fine tutti condividiamo lo stesso obiettivo, la sostenibilità fiscale nel medio e lungo termine.
(Lorenzo Torrisi)
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