Nelle scorse settimane nelle mie classi ho chiesto se qualche altro docente avesse parlato di ciò che sta accadendo in Israele e ho scoperto che pochissimi avevano affrontato la situazione. La paura di essere incasellati in una parte con il rischio di essere accusati di faziosità, l’ansia nel rincorrere il programma, le interrogazioni, le verifiche hanno prevalso rispetto alla drammaticità dei video e delle immagini degli attentati terroristici in Israele e delle bombe su Gaza, nelle poche classi in cui si è accennato qualcosa si sono accese discussioni e divisioni di schieramenti, specchio del dibattito pubblico tra chi è a favore di Israele o della Palestina, una discussione che senza un approfondimento serio pieno di ragioni porta soltanto ad aumentare le distanze piuttosto che favorire punti di incontro. Ma dove hanno preso gli studenti il loro pregiudizio? Dai social, dalle storie Instagram, dai reel o dai video brevi su TikTok, tutti luoghi in cui è impossibile un confronto e un dialogo.
Se l’educazione non viene più fatta a scuola, nelle famiglie o nei corpi intermedi viene fatta dai social e dobbiamo mettere in conto il fatto che sarà sempre più un’educazione che tende a posizione estreme, quelle posizioni più semplici da far proprie, che separano tutti in bianchi da una parte e neri dall’altra, anche su fatti che per natura o storia invece sono complessi e avrebbero bisogno di approfondimenti ragionati. Nel circolo vizioso tipico dei social e degli algoritmi ognuno continuerà a seguire e ad ascoltare soltanto le posizioni più vicine alle proprie, radicalizzando sempre più le proprie idee e vedendo nell’altro un nemico politico o religioso da abbattere verbalmente o anche fisicamente, come è successo con l’assassinio del professore di storia in una città francese.
Con i giovani invece c’è bisogno di costruire luoghi di dibattito, di dialogo e anche di incontro/scontro per approfondire le ragioni dell’altro e nel nostro contesto sociale uno dei pochi luoghi in cui questo può avvenire è proprio la scuola. Certo c’è bisogno di insegnanti che rischino in un rapporto con i propri alunni, ma non si possono lasciare i ragazzi in balia di ideologie, gruppi di potere o estremismi veicolati attraverso i social, come non si può lasciare l’iniziativa ad un singolo docente ben disposto ad immolarsi durante le proprie ore, con il rischio di apparire come il singolo contro gli estremismi. C’è sempre più bisogno di una comunità e una scuola dietro ai docenti che vogliono ancora educare. Lo psicologo premio Nobel nel 2020 Daniel Kahneman ha dimostrato con esperimenti come “un modo sicuro di indurre la gente a credere a cose false è la frequente ripetizione, perché la familiarità non si distingue facilmente dalla verità”, i social rappresentano bene la situazione attuale della disinformazione e della divisione in un dibattito come quello dello scontro tra Israele e Palestina.
Il terreno fertile per l’estremismo è quello dell’indifferenza, di chi non vuole rischiare un giudizio per il quieto vivere borghese, soprattutto all’interno di una classe. In gioco c’è il futuro dei nostri ragazzi e il futuro del nostro Paese. La scuola e i docenti sono pronti ad affrontare questa sfida o si sono già arresi al nichilismo veicolato attraverso i social?
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