La terapia con il plasma dei pazienti guariti dal Covid funziona, soprattutto se somministrato entro cinque giorni dai sintomi e nelle persone immunocompromesse. A differenza dei farmaci realizzati ad hoc, il plasma iperimmune è un rimedio a basso costo, quindi poco remunerativo a livello di business farmaceutico. La conferma sui benefici della terapia di cui è stato pioniere Giuseppe De Donno, ex primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova che per primo nel 2020 aveva iniziato così a curare il Covid, arriva da un articolo pubblicato in questi giorni sul British Medical Journal (Bmj), a poche settimane da uno studio belga pubblicato sul New England Journal of Medicine (Nejm), che dimostra come il plasma iperimmune riduca del 10% la mortalità nei pazienti Covid in distress respiratorio acuto e sottoposti a assistenza respiratoria artificiale.
Come si legge nel Bmj, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel 2021 aveva suggerito l’impiego del plasma convalescente sull’onda degli scarsi risultati dei primi studi, ma la maggior parte di questi riguardavano pazienti ricoverati con Covid grave. Come sottolineato dal professor Arturo Casadevall, che insegna Microbiologia molecolare e immunologia alla Bloomberg School of Public Health e alla Johns Hopkins University di Baltimora, i primi studi sono stati condotti in condizioni in cui il trattamento “non poteva funzionare perché somministrato troppo tardi per avere effetto” in quanto “gli anticorpi funzionano solo quando il virus è attivo, non nelle fasi successive” della malattia.
“PLASMA IPERIMMUNE? CURA MARGINALE PERCHE’ POCO REDDITIZIA”
Nel suo articolo, Casadevall dichiara che il trattamento con plasma iperimmune entro una settimana è utile “nelle persone immunocompetenti con Covid-19, perché a ucciderle è l’infiammazione, quindi è necessario” attivarsi “prima che l’infiammazione vada fuori controllo“. Per quanto riguarda le persone con problemi immunitari, “il momento in cui si somministra il trattamento in realtà è meno importante perché non riescono a eliminare il virus“. A differenza degli antivirali, come remdesivir e paxlovid, “che non eliminano il virus” in questi soggetti, il plasma iperimmune può fare una grande differenza, fornendo gli anticorpi che queste persone non riescono a produrre e “riducendo il rischio che l’infezione diventi cronica“. Lise Estcourt, direttore della Clinical Trials Unit dell’Nhs Blood and Transplant nel Regno Unito, ricorda poi che molte terapie con anticorpi monoclonali “non sono più efficaci contro le nuove varianti” del Covid.
Mentre il virus cambia, le terapie con anticorpi monoclonali non possono cambiare. Invece, il plasma convalescente risponde ad ogni forma di virus con cui sono state in contatto (o con cui sono state vaccinate). Pertanto, la terapia può “adattarsi man mano che i donatori di plasma sono esposti a nuove infezioni o vaccinazioni aggiornate“. Ma l’articolo sul Bmj affronta anche la questione economica, evidenziando che la terapia, come aveva annunciato De Donno, non è sostenuta perché “non è redditizia“, visto che è una trasfusione. “Il plasma convalescente, in particolare quello di donatori vaccinati, ha dimostrato una maggiore resilienza alle varianti Sars-Cov-2 immunoresistenti, maggiore adattabilità e convenienza complessiva“. Ma il timore degli esperti è che che la mancanza di interesse delle case farmaceutiche “renderà sempre marginale” questa cura.