Buona la terza: dopo Standard & Poor’s e Dbrs, anche Fitch ha confermato il rating dell’Italia: BBB con outlook stabile. Adesso aspettiamo la quarta pagella dei guardiani del debito pubblico, quella di Moody’s, e facciamo gli scongiuri non solo perché verrà annunciata venerdì prossimo 17 novembre, ma perché Moody’s a maggio ha deciso di non aggiornare il rating e l’attuale giudizio colloca l’Italia a Baa3 con prospettive negative. A fine aprile la stessa agenzia sottolineava come l’Italia rischiasse di perdere l’investment grade. In sostanza, sarebbe sufficiente un ritocco al ribasso per relegare il merito di credito dell’Italia nella categoria “spazzatura”.
Mentre tratteniamo il respiro, leggiamo quel che scrive il bollettino della Bce: “Le variazioni dei differenziali sui titoli di Stato nella zona euro sono state molto contenute, con l’eccezione del differenziale italiano, che si è in qualche misura ampliato, verosimilmente per effetto di fattori idiosincratici collegati, tra le altre cose, alle notizie riguardanti le misure fiscali previste dalla legge di bilancio nazionale”.
E leggiamo anche quel che dice Fitch: “Il rating dell’Italia – afferma l’agenzia – è sostenuto dalla sua economia ampia, diversificata e ad alto valore aggiunto, dall’appartenenza all’eurozona e dalla solidità delle istituzioni rispetto alla mediana del gruppo dei peer. Queste caratteristiche creditizie sono bilanciate da fondamentali macroeconomici e fiscali deboli, in particolare da un debito pubblico molto elevato, da una politica fiscale relativamente poco rigorosa dopo la pandemia, da un potenziale di crescita economica ridotto e, più recentemente, da un contesto di rendimenti più elevati”.
Infine, nelle nostre tristi letture del fine settimana c’è anche la nota mensile dell’Istat: la produzione industriale a settembre rispetto al mese precedente è stata nulla e ha perso due punti percentuali rispetto allo stesso mese del 2022, l’ottavo calo consecutivo. La fiducia delle imprese e delle famiglie è scesa di nuovo in ottobre, raggiungendo il livello più basso da gennaio. Pesano le guerre, quella di Gaza dopo quella dell’Ucraina, pesa l’inflazione che resta elevata, pesa il rischio che s’aggiunga anche una recessione.
L’equazione economica, dunque, ha troppe incognite per trovare una soluzione semplice, e tra queste incognite quella forse ancor più incerta riguarda l’Ue, o meglio il Patto di stabilità che tornerà in vigore da gennaio. Vi fa riferimento anche Fitch e gli sviluppi finora negativi di un braccio di ferro giunto al momento culminante sarà importante anche per il giudizio di Moody’s.
Al punto in cui siamo, Germania e Francia stanno raggiungendo un’intesa a due attorno a un compromesso determinante per l’esito dell’intero negoziato. La riforma, come viene chiamata anche se si tratta piuttosto di un aggiustamento, dovrebbe introdurre flessibilità e secondo le stime del think tank europeo Bruegel renderà meno stringente l’aggiustamento di bilancio per raggiungere un deficit del 3% entro 4 anni (allungabili a 7 come insiste la Spagna) e ridurre il debito. Il cappio al collo dei Paesi più indebitati come Italia e Grecia sarà un po’ più lento. I Paesi con un debito inferiore al 90% del Pil avranno maggiori margini, la Francia che sistematicamente non rispetta il 3% dovrà tirare un po’ più la cinghia, a meno che il suo debito non scenda sotto quota 90. In questi quattro o sette anni si tratta di seguire “un percorso plausibile e rimanere su livelli prudenziali”.
Che cosa sarà plausibile e prudente verrà stabilito dalla Commissione in seguito a una serie di parametri tecnici. Su questa base si andrà al negoziato con i singoli Governi, dopo di che non sarà più possibile tornare indietro a meno di cambiamenti di governo o “casi estremi”. Se è così la flessibilità, oggetto di trattative che s’annunciano estenuanti, finirà per produrre un comportamento rigidamente previsto in tutti gli anni successivi. Un risultato contraddittorio, un sentiero pericoloso, anche se alla fine la Germania rinuncerà a fissare una percentuale fissa con la quale misura la prudenza e plausibilità del percorso.
Per l’economista Lorenzo Bini Smaghi il nuovo Patto finisce per essere meno flessibile e meno trasparente del primo. Non solo: “Che cosa accadrà sui mercati se un Governo rifiuta la proposta della Commissione?”, si chiede in un articolo sul Foglio. Gli operatori cominceranno a vendere i titoli del Governo non allineato? La sua conclusione è radicale: a questo punto meglio non cambiare, “chi lascia la via vecchia per la nuova male si ritrova” è un proverbio quanto mai adatto a quel che accade sulla scena di Bruxelles.
Dunque il Governo Meloni si prepara al gran rifiuto? È quel che ha annunciato il ministro Giorgetti al vertice di giovedì scorso? Sembra di no, non apertamente, ma ha espresso le sue critiche, soprattutto il rammarico perché non è passata la proposta di congelare le spese per investimenti strategici. Probabilmente verrà accolta solo la parte relativa alle spese militari per la quale spinge la Francia. In ogni caso, il Governo italiano si sente messo in un angolo, anche se nei mesi scorsi non ha fatto granché per costruire, con la solita paziente tessitura diplomatica, almeno una rete di salvataggio. Trapela l’ipotesi che il nuovo Patto entri in vigore solo dopo le elezioni, cioè con la prossima legislatura. Ma una tregua tattica non basta, anzi ragionando con la testa di chi opera sul mercato dei titoli pubblici, introduce solo confusione e incertezza.
Non arriviamo a conclusioni frettolose e aspettiamo la maratona finale, ne avremo fino alla vigilia di Natale. Non serve battere i pugni sul tavolo, bisogna proporre un piano B (o forse piano D come Draghi). Non c’è, ci si potrebbe lavorare con “spirito nazionale”, cioè cercando aiuto e un consenso bipartisan. Ma il clima politico, già pre-elettorale, non è davvero quello giusto. La maggioranza vuole procedere da sola, anche a costo di andare a sbattere, le opposizioni sperano in un fallimento da addossare al Governo, anche se a rimetterci sarebbe l’intero Paese.
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