Manca l’elettricità, l’acqua. E questo significa anche non potersi lavare come si deve, non avere a disposizione dei servizi igienici. La vita degli sfollati di Gaza è sempre peggio. Il cibo è quello che è, poco, le bombe continuano a cadere e a volte non si ha neanche il conforto di tutta la famiglia, perché una parte, magari donne e bambini, se ne è andata dalla città verso il Sud della Striscia. Il rumore delle armi che sparano fa da sottofondo e quando esplodono degli ordigni il terrore di venire colpiti o di perdere una persona cara blocca lo stomaco. Ma, oltre a quel pericolo, diventato ormai inseparabile compagno di vita, i profughi delle due chiese di Gaza seguite dalla Caritas temono di ritrovarsi in mezzo a un’epidemia.
“Le condizioni igieniche sono quello che sono – racconta Fabrizio Cavalletti, dell’Ufficio Medio Oriente e Africa di Caritas – e chi sta male deve cavarsela da solo”. Se è qualcosa di grave si può cercare un ospedale, ma ormai anche queste strutture sono allo stremo: alcune sono chiuse perché manca tutto quello che serve, altre funzionano a fatica. Sono diventati degli obiettivi militari di Israele perché sulle stesse aree Hamas avrebbe dislocato le sue basi, facendosi quindi scudo dei civili.
La situazione sanitaria di Gaza, d’altra parte, era grave anche prima della guerra. Non per niente Caritas aveva puntato proprio sulle cure mediche per aiutare la gente. Prima che gli israeliani rispondessero pesantemente allo scellerato attacco di Hamas del 7 ottobre, il personale Caritas si occupava di 100mila persone l’anno con un ambulatorio fisso e alcune strutture mobili che si recavano anche fuori dalla città, un po’ in tutta la Striscia. Servizi che rispondevano ai bisogni sanitari primari e che il conflitto ha bloccato prima ancora che fossero presi di mira i nosocomi.
Com’è la situazione degli sfollati e degli operatori Caritas che si trovano presso la chiesa ortodossa di San Porfirio e quella della parrocchia cattolica?
La situazione continua a essere grave. Qualche sfollato e qualche operatore di Caritas Gerusalemme sono andati via sfruttando la possibilità fornita dal corridoio umanitario concesso da Israele. Si sono spostati verso il Sud della Striscia. Le chiese sono a Gaza City, nella parte Nord. Altri sono rimasti e stanno portando avanti, per quello che possono, la nostra azione umanitaria: comprando, grazie a fondi inviati attraverso le strutture bancarie che ora funzionano con qualche difficoltà in più, i beni di prima necessità messi in vendita da un fornitore del luogo che attinge alle sue scorte. Il segnale che ci arriva da loro è che la situazione è sempre più grave: hanno poco carburante, manca l’elettricità. Poi hanno il problema delle strutture sanitarie.
Cosa li preoccupa di più in un contesto in cui la vita è in pericolo per mille motivi?
La loro preoccupazione più grande adesso è anche per le malattie, soprattutto che si diffondano delle epidemie. Nell’ultimo contatto che abbiamo avuto ce lo hanno ribadito in modo molto forte. Vivono in condizioni igienico-sanitarie molto carenti. L’acqua scarseggia e questo si ripercuote sui servizi igienici e sulla possibilità di lavarsi.
Ci sono già segnali di epidemie in corso?
Per il momento il colera non c’è ancora, ma il rischio è alto. Ci sono già casi di dissenteria e patologie legate alle carenze igienico-sanitarie. Chi si ammala poi non ha le medicine per curarsi a causa della scarsità dei farmaci dei servizi sanitari. È una situazione esplosiva: gli ospedali, quelli che funzionano, sono stracolmi. La possibilità di farsi curare lì per gli sfollati c’è, ma solo sulla carta, nella realtà è molto limitata. Ci sono stati dei blackout agli ospedali Al Shifa e Al Quds che hanno provocato anche dei morti.
Caritas prima della guerra metteva a disposizione della popolazione proprio dei servizi sanitari: un ambulatorio fisso e alcune unità mobili. Anche queste hanno smesso di funzionare?
Questi servizi sono stati chiusi subito perché il personale non riusciva più a lavorare. Alcuni operatori sono sfollati nelle chiese, ma non hanno più strumenti per fare qualcosa, altri si sono trasferiti, anche al Sud. Nelle chiese dove si è rifugiato anche il nostro personale ci sono ancora un migliaio di persone. Quelli che sono andati altrove non sono tantissimi, anche se poi queste sono situazioni che possono cambiare di ora in ora. I servizi che assicuravamo prima della guerra erano di salute primaria, tipo il nostro medico di base, grazie alle unità mobili. Poi nel centro sanitario fisso c’era qualche servizio un po’ più specializzato come le analisi di laboratorio, analisi del sangue e qualche visita più specialistica. Per i casi più difficili si faceva riferimento agli ospedali pubblici, quelli che adesso fanno fatica a funzionare.
Quanto è peggiorata la situazione con lo scoppio della guerra?
Già prima del conflitto i servizi sanitari non erano sufficienti, e la popolazione era vulnerabile già allora, alle prese con carenze sanitarie, sociali e di sicurezza alimentare. Anche perché c’era un embargo dal 2006. Una situazione di grande vulnerabilità che improvvisamente è diventata catastrofica, una crisi umanitaria vera e propria dovuta ai bombardamenti e ai feriti che hanno comportato. Nel periodo precedente all’attacco del 7 ottobre assicuravamo servizi a 100mila persone l’anno, di Gaza City e un po’ di tutta la Striscia. Le unità mobili si muovevano un po’ dappertutto.
Ma come vivono gli sfollati delle chiese?
Gli sfollati vivono fianco a fianco con la guerra, i bombardamenti continuano: il territorio non è vasto, se anche la bomba cade a qualche centinaio di metri fa lo stesso il suo effetto; vivono in una situazione di costante insicurezza e paura. Hanno dei beni alimentari che comprano con i fondi che ancora riusciamo a inviare, ma vengono acquistati anche coperte e vestiti. Le due chiese raccolgono famiglie con bambini, ma c’è comunque difficoltà ad assicurare un pasto al giorno: non si va tanto oltre. C’è bisogno di razionare tutto. Alcune famiglie poi sono divise, hanno mandato via donne e bambini lasciando gli uomini o anche il contrario. Anche per un discorso di sopravvivenza. Pensano: “Dividendoci c’è qualche possibilità in più che qualcuno resti in vita”.
(Paolo Rossetti)
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