“io/ Isacco/ attesto tutte queste cose…”. Nell’ultima pagina del suo nuovo libro in poesia Parola di Isacco (Puntoacapo, 2023), Alessandro Pertosa esplicita definitivamente la sovrapposizione tra la figura biblica del figlio di Abramo e la sua, la figura del poeta che compie il suo viaggio di esule attraverso il tempo e il mondo (tema che abbiamo già recentemente incontrato anche nel bel libro di Roberto Gabellini, Era questo l’amore?).
Ed è, quello del viaggio, l’orizzonte dentro il quale leggere la ricerca di chi ha fame di sapere, di conoscere e dice di sé: “sopravvivo/ a un avvenire ancora in ombra e mi redime/ la disperazione in un folle amore:/ non ho niente a cui appigliarmi, ignoro/ la mia destinazione:/ sono un uomo/ e volo senza ali”. La confessione del poeta giunge nelle pagine finali del libro che, appunto, non è una raccolta di poesie, ma invece un testo unitario e compatto che si sviluppa quasi come una sorta di doppia drammaturgia, nella prima parte della quale va in scena la crudeltà e la tenerezza dell’episodio biblico.
È significativo che il viaggio cominci proprio però con le parole di Abramo, cioè del padre, simbolo della Legge e dell’Ordine. Un Abramo che dicendo “Eccomi!” compie in realtà il suo sacrificio, acconsentendo alla perdita del figlio che gli verrà sottratto, per permettergli di slegarsi dai vincoli familiari e trovare il suo posto nel mondo. Il coltello non servirà a uccidere il figlio, ma a separare da un’unione che preclude la libertà. L’Eccomi! di Abramo forse significa: seguo il tuo ordine, Dio, sapendo che la tua Legge non può volere il sacrificio. Tutto questo si traduce nel testo di Pertosa nei versi che mette sulla bocca del padre: “quando l’amore ti tocca/ è una roba da matti”, dentro i quali si mantiene comunque nei confronti di Dio un atteggiamento interrogativo e di sfida. Si prenda Dio il peso e l’orrore di questo sacrificio, dice Abramo-Pertosa, e getti nell’oblio la discendenza e l’onore.
Di fronte a questa follia amorosa, il figlio Isacco scampato all’uccisione non può non domandarsi chi sia quel padre, da dove venga il fuoco di quegli occhi. Isacco desidererebbe tornare alla sua infanzia, quando il padre era la sua certezza, quando la madre era cura e sostegno. Ma non si può tornare indietro: Isacco-Pertosa è ormai consapevole dell’assenza di un Altro a cui richiamarsi per conoscere la verità. Ora è chiaro che il suo sarà un cammino solitario, pieno di dubbi e di incertezze, quasi un naufragio, verrebbe da dire, tanto è potente la consapevolezza di stare nella mancanza, nella perdita dell’illusione di una garanzia, come dice Cristiana Santini nella sua bella e ricca prefazione.
Ma è proprio nella notte, nel silenzio spettrale che fa eco alle nostre domande, che per l’uomo Isacco – e per ciascun uomo, come il poeta lascia intendere – si definisce il senso dell’esistenza: essa è decisione di esserci e di domandare. E l’uomo diventa quell’ “homo viator – uomo senza patria e senza nulla, con in mano/ unicamente il suo destino/ colmo di domande appese a un filo”, – che incessantemente desidera trovare una risposta al suo desiderio di una casa, di una salvezza.
E se dunque la poesia di Pertosa è ben consapevole di essere una parola che si muove nel tempo dell’assenza degli dei, proprio nel momento in cui pensa ai suoi figli riconosce l’insopprimibile necessità di continuare a desiderare di incontrare quella verità: “consacro al desiderio/ il tuo corpo sinfonia/ e vederti un giorno veleggiare in lontananza/ è un segno di speranza/ nell’aria che risale il sempre Tu/ di un sentiero siderale”. La verità, dunque, desiderata non come qualcosa da scoprire, ma come Qualcuno in cui imbattersi.
Si ripete qui quanto era avvenuto nella Passio, un altro importante libro di Pertosa: attraverso il suo sguardo inquieto e impotente, frantumato in altri sguardi – qui quello di Abramo, di Isacco, della madre e dei figli – il poeta chiama ciascuno di noi a riprendere in mano la vita, a cercarne il senso, a metterci in viaggio. E lo fa non solo scolpendo con la sua scrittura in modo asciutto e preciso la forma e la sostanza di questo interrogarsi sull’esistenza; ma anche tornando sempre a fare i conti con la parola, con la stessa materia di cui si serve per avvicinarsi a queste domande. Materia che appare forte e vittoriosa proprio là dove accetta la sua sconfitta, dove sa rinunciare al registro sapienziale, sostenendo la gravità delle tensioni messe in scena con la lingua potente del desiderio e quella umile della pietà. Verso i padri, i figli e il mondo intero.
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