“Noi che misticamente raffiguriamo i cherubini, e alla Trinità vivificante cantiamo l’inno Trisagio – l’inno a Dio tre volte santo – deponiamo ora ogni preoccupazione ansiosa per la nostra vita…”. La struggente melodia dell’Inno dei cherubini, che segna il passaggio dalla liturgia della parola al “Grande Ingresso” dei celebranti sull’altare, per la recita del Credo e il rito della solenne consacrazione del pane eucaristico, anima uno dei momenti forse più suggestivi della “Divina Liturgia” di rito bizantino-slavo, che il coro di Russia Cristiana consente a tutti di rivivere, ancora oggi qui da noi in Italia, nella sua eloquente bellezza. La continuità di questo prezioso servizio di testimonianza e di memoria non è altro che l’esplicita conferma della fecondità racchiusa nel carisma appassionato del fondatore, padre Romano Scalfi, scomparso il giorno di Natale del 2016 e di cui quest’anno si ricorda il centenario della nascita.
Fino all’ultimo, la sua è stata un’esistenza tutta consacrata alla ripresa del dialogo tra i due polmoni della tradizione religiosa europea, già da quando i rapporti reciproci tra Est e Ovest erano stati resi pesantemente difficili dalle contrapposizioni politico-economiche della Guerra fredda e il comunismo sovietico, con le sue proiezioni esterne che arrivavano a lambire il cuore centrale del continente, manteneva ferme le sue ambizioni fagocitanti, che non lasciavano spazio al pluralismo delle libertà e delle differenze.
Invece di limitarsi a lanciare anatemi, padre Scalfi intesseva legami, si metteva alla scuola di una grande storia, quasi da tutti ignorata, e insegnava a valorizzare le ricchezze custodite in un tesoro di spiritualità, di santità e di cultura che, dalle sofferenze e dalle privazioni della repressione totalitaria, si è trasmesso alla fase del disincanto post-ideologico, segnata dal riemergere delle ambizioni di rivincita degli odierni nazionalismi. Svuotate le fragili retoriche dei sogni di rigenerazione fraterna del mondo esistente, nel deserto del trionfo globale dell’imperialismo delle merci e a fronte delle tensioni drammaticamente ridestate fra i blocchi che si contendono l’egemonia nelle aree più instabili del mondo, rimangono intatte le vene segrete di un patrimonio venuto da un lontano passato, ma ancora capace di offrirsi come fertile nutrimento a chiunque ritorni ad abbeverarsi alle sue più genuine sorgenti: quelle sopravvissute a ogni tentativo di violenta rimozione dispotica così come alle distorsioni e allo snaturamento introdotti nello scenario attuale del “nuovo disordine” internazionale, mentre si scavano solchi di divisione e si innalzano trincee sempre più minacciose fin sul suolo interno del Vecchio Mondo in declino.
La Divina Liturgia è, in pratica, l’equivalente della messa cattolica, celebrata nella forma dell’antico rituale modellato dalle prime comunità cristiane del Medio Oriente già a partire dal IV secolo, poi sviluppato e ulteriormente elaborato nel centro dell’Impero bizantino, a Costantinopoli, e da lì trasmesso all’intero mondo ortodosso, mediante il travaso dalla lingua greca originaria alla lingua slava dei popoli dell’Europa centro-orientale, avvicinati al cristianesimo a partire dalle campagne missionarie dei santi Cirillo e Metodio nel IX secolo. Nella Divina Liturgia messa a punto dai grandi Padri della Chiesa san Giovanni Crisostomo e san Basilio Magno bisogna vedere il vertice del culto collettivo di tutta la cristianità orientale: quella che riunisce i nostri più vicini fratelli nell’unica fede in Cristo. La tradizione liturgica nata dalla loro specifica storia è quella tuttora seguita dalle varie Chiese ortodosse del mondo slavo, in gran parte passato sotto il primato di Mosca nell’ultimo millennio. Ma lo stesso rituale è in uso presso le loro Chiese sorelle del più vicino Oriente tanto quanto nelle comunità cattoliche di rito bizantino presenti in quelle terre, le une e le altre diffuse ormai anche nelle altre parti del mondo attraverso i flussi dell’emigrazione, che hanno portato alla diaspora di gruppi consistenti delle popolazioni originarie dei luoghi in cui poté innestarsi il germe di una comunione cristiana che solo dopo numerosi secoli ha rotto ogni rapporto con il primato rivendicato dal vescovo di Roma e ha preso una strada propria.
Per questo la liturgia bizantino-slava affonda le sue radici in un retaggio spirituale che è quello comune dell’intera ecumene cristiana, anteriore a tutti i conflitti e a tutte le lacerazioni che l’intreccio complicato con le diatribe teologiche e i contrasti di natura politica e istituzionale hanno finito con l’accumulare nel corso del tempo.
Il suo stile austero, la sua gestualità carica di simbolismo, lo splendore delle icone, la profusione dei colori e delle luci, l’offerta continua dell’incenso, la raffinatezza dei testi calati nella dolcezza pacificata di una musica continua, che avvolge i fedeli in un clima ininterrotto di attenzione, di richiamo all’essenziale, di concentrazione sull’azione sacra che si sta svolgendo, sono una risorsa non depredabile che vale ancora oggi per i cristiani di ogni latitudine e di ogni confessione. Per questo è importante tenerla viva. Ed è una cosa santa che uomini di Chiesa come padre Scalfi, insieme ai tanti che gli sono stati vicini, abbiano dedicato le loro energie a questo compito quanto mai urgente e delicato di custodia e di intelligente rilancio di una vocazione da condividere, proprio come antidoto da contrapporre all’inasprimento delle fratture che sono sotto gli occhi di tutti con i loro sinistri bagliori di guerra aperta, ma che prima ancora interpella ogni singolo credente in quanto parte di una cristianità che ci ricomprende nella sua polivalente sinfonia plurale.
Celebrare la liturgia nella medesima forma, con le medesime parole e i medesimi atti di preghiera solidale, mettersi a supplicare all’unisono, significa riaffermare il bisogno di legarsi al centro da cui scaturisce una unità che è da restaurare non tanto, o non solo, con le decisioni dei vertici di governo delle Chiese e degli Stati, ma convergendo come fratelli che si stimano a vicenda e si accettano l’uno con l’altro nell’adorazione dell’unico Dio e dell’unico Cristo riconosciuto nostro Salvatore: cioè abbracciandoci in ciò che ci accomuna già dentro la diversità delle storie, dei temperamenti, degli stili di vita e di pensiero, attaccandoci alla realtà viva della Presenza divina che è l’oggetto della fede che professiamo. Si tratta, al fondo, di rimettersi più onestamente e più radicalmente davanti al Mistero da cui deriva ogni senso di quello che i cristiani credono e che propongono al mondo in risposta al bisogno di salvezza dell’uomo e della società del nostro tempo nel suo insieme. Il tessuto a brandelli di una unità frantumata si ricrea annodando i fili di relazioni capaci di gettare ponti di coesione al di là delle barriere che attualmente ci separano e sono tornate, anzi, a irrigidirsi, mettendo sotto scacco la logica dell’incontro e la possibilità di percorrere passi di avvicinamento reciproco.
Ma tornare a convergere nell’abbraccio della carità fraterna non può essere il frutto dello sforzo sovrumano di singoli io. Le inclinazioni buone e la tenacia delle energie morali sono troppo deboli, sempre in lotta con la pressione opposta della difesa dei propri pregiudizi, dei propri interessi, del proprio potere unilaterale e dei propri spazi tradizionali. L’unità della comunione cristiana è prima di tutto un dono: più che costruirla, la si riconosce se si cammina andando incontro al Signore in cui tutto ciò che esiste è stato creato e per cui noi siamo fatti fin dalle nostre fibre più profonde. La Divina Liturgia di rito orientale esalta proprio questa precedenza del Mistero che ci scavalca: non siamo noi gli attori messi in primo piano, ma noi siamo aiutati a ritrovare il nostro volto più autentico, quindi a guardare anche a chi ci sta vicino in modo nuovo, nella luce della misericordia che perdona, lasciandoci attrarre, pur con tutti i limiti e tutte le miserie che ci portiamo addosso, per la nostra storia e le nostre colpe attuali, dalla bontà risanatrice di Colui che sta al centro della salvezza di tutti.
È un Altro il vero protagonista. Noi entriamo in dialogo con la sua amorosa Presenza e veniamo trascinati, per grazia, nella storia che da lui prende la sua vera origine. Per questo infinite volte nel corso della Divina Liturgia il coro ci fa ripetere, ostinatamente: “Góspodi, pomíluj!” (Signore, pietà!). Per questo ci si inchina. Si traccia di continuo il segno della croce con le tre dita aperte in deferente omaggio rivolto alla Trinità. Per questo si sta sempre in piedi. Si entra con il cuore, con i sensi e con la mente in un orizzonte in cui gli angeli e i santi sono chiamati a discendere dall’alto per farci compagnia, unendosi alle armonie di un canto umano, senza accompagnamento di strumenti artificiali, che tenta di imitare le sinfonie melodiose del Paradiso dei beati. E alla fine, riconsegnati all’umiltà della nostra enorme sproporzione rispetto alla grandezza commovente del mistero sacro che si rinnova davanti alla comunità riunita, possiamo timidamente osare di accostarci all’unico pane spezzato per la risurrezione della vita di ognuno. Possiamo bere una goccia di vino consacrato attingendo al calice che ci comunica la forza del sangue versato da Cristo sulla croce. Possiamo baciare riconoscenti la croce, come ultimo atto, e portare con noi, a casa, un frammento di pane benedetto: semplice icona di rinvio domestico al “vero corpo di Cristo, nato da Maria Vergine, veramente fatto soffrire, in croce immolato per ogni uomo”.
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