Le previsioni economiche di autunno diffuse mercoledì dalla Commissione europea fanno emergere in maniera più evidente la forbice che si è aperta tra Eurozona e Stati Uniti, accomunate solamente da un alto livello dei tassi di interesse finalizzato a contrastare l’inflazione che oltreoceano a ottobre è arrivata al 3,2% annuo, un livello che, secondo Bruxelles, nell’area dell’euro verrà raggiunto solo nel 2024. Come sottolinea l’economista Domenico Lombardi, direttore del Policy Observatory della Luiss ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, «la graduale, seppur lenta, stabilizzazione del quadro inflattivo, nel caso statunitense si affianca a un’economia che ha mostrato una resilienza significativa, con una dinamica di crescita di gran lunga superiore a quella dell’Eurozona. Si ha, quindi, una conferma che la Fed sta riuscendo nel suo tentativo di soft landing».
Da quest’altra parte dell’Atlantico, invece, le cose non vanno così bene…
In Europa il quadro congiunturale è chiaramente differente. C’è sì una discesa dell’inflazione, anche se molto più graduale, ma soprattutto un deterioramento persistente della congiuntura che è particolarmente evidente in Germania. Secondo le previsioni della Commissione europea, l’economia italiana sembra aver toccato il punto di minimo nel terzo trimestre, superato il quale ci sarà una graduale ripresa – già a partire da questo trimestre – che dovrebbe poi diventare più vigorosa nel corso del prossimo anno, trainata da aumenti salariali e da una continua discesa dell’inflazione, con l’effetto di aumentare le risorse reali a disposizione dei lavoratori e dei consumatori.
In effetti, la Commissione europea sembra puntare molto sulla ripresa dei redditi reali.
Sì, oltre a questo driver, sostenuto da una buona tenuta dell’occupazione, per il 2024 Bruxelles prevede una ripresa della componente estera della domanda aggregata, che finora è stata compressa dal deterioramento della congiuntura mondiale, come reso più evidente dall’andamento dell’economia tedesca. Dobbiamo però essere consapevoli che queste previsioni, come indicato dallo stesso commissario Gentiloni, sono soggette a incertezza, visto anche il contesto geopolitico mondiale.
Alla luce dei driver individuati e dell’incertezza riconosciuta dalla stessa Commissione, non le sembra che manchi a livello europeo una politica anti-ciclica?
È proprio così, si nota l’assenza di una politica fiscale anti-ciclica. Anzi, l’attuale architettura istituzionale probabilmente spinge la politica fiscale in una direzione ancora più pro-ciclica. A livello europeo non è emersa una progettualità che potesse in qualche modo catalizzare ulteriori iniziative com’era invece accaduto al tempo del Covid. E questo rimane un elemento di vulnerabilità che accentua la pro-ciclicità della politica fiscale.
E sembra che nel dibattito sulla riforma del Patto di stabilità non emerga una vera soluzione a questo problema.
Data l’attuale polarizzazione delle preferenze politiche in seno al Consiglio, non ci possono essere proposte particolarmente migliorative rispetto a un’architettura istituzionale in cui le politiche fiscali rimangono pro-cicliche. Inoltre, mancano iniziative centrali che possano non solo mitigare, ma addirittura più che compensare l’impatto di shock esterni.
Ben che vada, quindi, resteranno gli spazi fiscali eterogenei tra i Paesi europei, al più ci potrebbe essere lo scomputo di qualche investimento pubblico…
Quello su cui si sta lavorando è cercare di introdurre degli elementi di flessibilità in assenza di una progettualità a livello centrale che possa innescare una vera e propria discontinuità, così come avvenuto con il Next Generation Eu al tempo del Covid.
Le previsioni della Commissione giustificano la permanenza di alti tassi di interesse nell’Eurozona?
Nell’intero orizzonte delle previsioni, l’inflazione resta superiore al target di medio termine del 2%. Chiaramente questo contribuisce a rafforzare le aspettative di una permanenza del regime di alti tassi di interesse nell’Eurozona. Gli Stati Uniti sono in una situazione diversa, anche perché ha Fed ha avviato prima la stretta monetaria. Oltretutto, essendo negli ultimi tempi aumentati i tassi di mercato, per la banca centrale americana è possibile evitare ulteriori rialzi di quelli di intervento.
In Europa, a differenza di quanto avviene negli Usa, manca, però, una politica fiscale che possa mitigare gli effetti della permanenza degli alti tassi.
L’economia dell’Eurozona risente in pieno dell’inasprimento della politica monetaria e il combinato disposto con quella fiscale è di fatto restrittivo. L’Eurozona, inoltre, non può contare sulla trazione che l’economia tedesca può generare perché si trova a sua volta in recessione nonostante lo spazio fiscale che Berlino ha a disposizione.
Dunque, nemmeno la situazione tedesca ci aiuta…
Il fattore tedesco non aiuta, semmai accentua la debolezza congiunturale dell’Eurozona. Un Paese che ha uno scarso margine di manovra fiscale come l’Italia, in un contesto di inasprimento della politica monetaria, si trova più esposto agli shock esterni, accentuati sia dall’architettura istituzionale dell’Eurozona che dalla stance della principale economia dell’area monetaria. A fronte di questo contesto, l’Italia dispone di un arsenale assai limitato per mitigarne le implicazioni negative.
L’Italia riuscirà a mantenere gli impegni sui conti pubblici?
I dati fiscali italiani attuali risentono di misure pregresse come il superbonus al 110% e non riflettono, invece, una postura espansiva dell’attuale Governo. Sarà importante cercare di attuare il Pnrr, soprattutto perché gli investimenti pubblici diventano ancora più importanti per controbilanciare il calo degli investimenti privati dovuto alla cancellazione del superbonus e al deterioramento delle condizioni finanziarie in seguito all’inasprimento della politica monetaria.
(Lorenzo Torrisi)
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