Giovedì scorso il Governo italiano di centrodestra ha varato misure contro l’escalation della microcriminalità, introducendo nuove figure di reato. Nelle stesse ore a Madrid il leader socialista Pedro Sánchez ha ottenuto la fiducia parlamentare per formare un nuovo Esecutivo con l’impegno di fatto a depenalizzare in corsa i reati di eversione separatista. Questo al fine di garantire l’impunità preventiva ai protagonisti di un “golpe” realizzato a Barcellona appena sei anni fa e da allora latitanti all’estero.
Giorgia Meloni è divenuta Premier, un anno fa, grazie a una netta affermazione elettorale della coalizione fra FdI, Lega e Forza Italia. Sánchez, nel luglio scorso, è stato bocciato dagli elettori spagnoli dopo cinque anni al potere. Ha potuto tentare un “ribaltone” solo in virtù di un successo non pieno del Partito popolare (comunque ridivenuto prima forza politica alle Cortes) e al declino relativo di altri partiti di destra.
I voti decisivi per una minima maggioranza parlamentare sono stati portati al Psoe da quattro piccoli partiti indipendentisti. Il più longevo di questi – quello basco – è l’erede dell’Eta, l’esercito clandestino che condusse per quarant’anni una guerra civile terroristica contro il centralismo franchista. Ma il protagonista dell'”operazione Sanchez” e’ stato Junts: il partito autonomista catalano, che nell’autunno 2017 dichiarò unilateralmente l’indipendenza di Barcellona. Il Presidente “golpista” dell’amministrazione catalana – Carles Puigdemont – fuggì subito all’estero quando il Governo di Madrid (con il pieno sostegno del re Felipe) inviò a Barcellona migliaia di “guardie civil” per ristabilire la sovranità e l’ordine. Da allora Puigdemont è ricercato su ordine della magistratura spagnola. Eletto nel 2019 eurodeputato si è stabilito in Belgio, sotto la (discussa) protezione di fatto della Commissione Ue (non dell’Europarlamento, che ha sede in Francia). La sua immunità è comunque in scadenza il prossimo giugno.
Nelle scorse settimane è stato Puigdemont personalmente a negoziare con Sánchez un accordo puramente politico sotto al tavolo della Costituzione e della legislazione penale spagnola. In cambio dei voti parlamentari al nuovo Governo, il Psoe si è impegnato a promuovere un’amnistia “ad personam” per il leader separatista e suoi altri sodali, cambiando quanto meno la “Costituzione materiale” della democrazia iberica e neutralizzando l’azione della magistratura ordinaria.
I dettagli dell’accordo Psoe-Junts, tuttavia, non sono pienamente noti. Sánchez, anzi, vi ha solo accennato di sfuggita nel suo discorso di insediamento. Il fine abbastanza evidente è stato quello di mettere al riparo di una spregiudicata finzione istituzionale il Re (davanti al quale il nuovo Premier ha regolarmente giurato fedeltà “allo Stato”); e l’Ue, di cui la Spagna regge la presidenza semestrale di turno fino alla fine dell’anno.
Mentre la svolta spagnola è stata accompagnata da violente manifestazioni di piazza a Madrid e in altre grandi città spagnole, Sánchez ha impostato una narrazione politica imperniata su due slogan: il suo Governo nasce con l’obiettivo principale di “fermare l’avanzata delle destre in Europa” (cioè di difendere una democrazia pretesa tale solo se governata dal centrosinistra); e di “promuovere una riconciliazione nazionale” con una forza politica che si è resa protagonista solo pochi anni fa di un golpe separatista, ipersovranista, mai rinnegato. Comunque un episodio che la magistratura iberica considera da allora grave attentato alla democrazia costituzionale. Un reato da perseguire.
Nel frattempo, quando ormai mancano solo sei mesi al voto di rinnovo dell’Europarlamento, i leader Ue – il presidente del Consiglio Charles Michel e il numero uno della Commissione Ursula von der Leyen – si sono subito felicitati con Sánchez. Continuano tuttavia le pressioni quotidiane di Bruxelles contro il Premier ungherese Viktor Orban: eletto democraticamente per quattro volte, ma giudicato da Bruxelles un pericolo per lo stato di diritto in Europa. La stessa accusa è stata alla base delle pressioni esterne dall’Ue e dalla Germania (ai limiti dell’interferenza) per condizionare le recenti elezioni in Polonia, caposaldo della resistenza Nato all’aggressione russa all’Ucraina. A Varsavia il candidato a guidare un Governo “democratico” è ora Donald Tusk, predecessore di Michel a Bruxelles.
In Italia, intanto, il Governo Meloni viene accusato di voler instaurare uno “stato di polizia” quando città come Roma e Milano (entrambe rette da sindaci Pd) stanno rapidamente perdendo condizioni minime di sicurezza urbana. Ma da settimane alla maggioranza di centrodestra è imputata anche di un colpo di mano più importante contro la Repubblica costituzionale: per il progetto di riforma incentrato sul cosiddetto “premierato”. Questo è stato peraltro trasparentemente presentato per la discussione parlamentare e pubblica ed eventualmente per un referendum popolare. Esattamente com’è avvenuto per una recente mini-riforma della magistratura: approvata da un Governo in carica e presentata alle Camere per l’approvazione.
Alle critiche alla maggioranza parlamentare democraticamente eletta si è voluta associare la Presidente uscente della Corte costituzionale Silvana Sciarra. Nel suo discorso d’addio ha lamentato che il progetto di premierato indebolirebbe la figura del presidente della Repubblica. Al netto dello sconfinamento istituzionale – ormai abituale – dell’Alta Corte nella sfera politica, l’uscita di Sciarra è parsa ai limiti dell’onestà intellettuale e della provocazione istituzionale.
Sciarra stessa è stata eletta giudice costituzionale nel novembre 2014: da una “maggioranza Renzi” che presentava più di qualche tratto comune con l’odierna “maggioranza Sánchez”. Renzi era ai suoi primi mesi di Premier mai eletto in Parlamento (solo ai gazebo delle primarie “dem”), ma “con pieni poteri” (era a un tempo segretario Pd e presidente del Consiglio). Era subentrato a Enrico Letta dopo una crisi extra-parlamentare promossa dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: lo stesso che – prima di essere rieletto, novità assoluta – aveva creato in Italia un regime semipresidenziale di fatto nel 2011 con l’estromissione di Silvio Berlusconi e l’imposizione a palazzo Chigi di un Commissario europeo come Mario Monti, omaggiato in tempo reale del laticlavio di senatore a vita.
La “maggioranza Renzi” – come la “maggioranza Letta” – era sostenuta in misura decisiva da una pattuglia di senatori “prestati” da Forza Italia e guidati da Denis Verdini (poi condannato in via definitiva per gravi reati finanziari). Quel “patto del Nazareno” (di fatto un’intesa privata fra Renzi e Silvio Berlusconi) avrebbe dovuto avere come corollario l’ascesa al Quirinale dell’ex Premier “euro-socialista” Giuliano Amato, nel 2015 fresco giudice costituzionale. Al suo posto fu invece eletto un altro membro dell’Alta Corte: il co-fondatore del Pd Sergio Mattarella. A sua volta rieletto nel 2022, dopo aver replicato il “semipresidenzialismo avanzato” di Napolitano in occasione del “ribaltone” che bel 2019 riportò al governo il Pd. Dal 2006 la presidenza della Repubblica è d’altronde appannaggio esclusivo nel centro-sinistra: nonostante il Pd non abbia mai riportato un’affermazione piena in alcuna consultazione politica (salvo quella – discussa – dell’Unione prodiana nel 2006).
Il Governo Renzi – in carica per mille giorni – promosse un suo progetto di riforma costituzionale, che depotenziava il Parlamento in coerenza con la parabola semipresidenzialista avviata da Napolitano e poi sviluppata da Mattarella. La riforma Boschi fu però sonoramente bocciata dagli italiani dal referendum del 2016. All’epoca, in ogni caso, non si ricordano uscite critiche da parte della “justice” Sciarra: né sulla deriva semipresidenzialista, né sulla riforma Boschi e neppure sulla successiva “Repubblica dei Dpcm” del Governo Conte-2 durante la pandemia.
Si rammenta invece il “ballon d’essai” per il Quirinale lanciato sul nome di Sciarra da Giuseppe Conte, due volte premier per M5S, per quanto non eletto prima e ribaltonista poi. Sciarra faceva tandem – nel tentativo Pd-M5S di fermare Mario Draghi, poi effettivamente maturato con il Mattarella-bis – con il nome della diplomatica Elisabetta Belloni: altra “quota rosa non eletta”, all’epoca capo del Dis, cioè dei servizi d’intelligence italiani. Non è nota, ovviamente, l’opinione di Sciarra su una repubblica nominalmente democratica il cui garante ultimo fosse l’ex capo degli 007 (il caso più conosciuto è quello di Vladimir Putin). Sappiamo invece che l’ormai ex presidente “rosissima” della Corte Suprema non gradisce che la prima donna premier nella Repubblica italiana proponga una riforma istituzionale il cui esito politico di fatto può essere l’abbandono anticipato di Mattarella (peraltro in scia a Napolitano e in un quadro di evidenti opportunità costituzionali).
P.S.: Nell’interpretare il suo “premierato”, il leader tardo-socialista Sánchez mostra di non ricordare la lezione di uno dei padri dell’eurosocialismo moderno: l’italiano Bettino Craxi. Il quale nel 1983 – al suo debutto come Premier (primo socialista nella storia della Repubblica italiana) – non dovette mendicare di nascosto il voto decisivo di un deputato neo-eletto: il radicale Toni Negri, appena scarcerato perché al centro di inchieste giudiziarie su gravi fatti eversivi di stampo terroristico. Timoroso che la Camera desse subito l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti, Negri fuggì in Francia e lì rimase protetto dalla “dottrina Mitterrand”.
Negri non si dimise mai da parlamentare e si appellò invece più volte – anche a Craxi, ma inutilmente – per poter rientrare in Italia lungo un preteso sentiero di “riconciliazione” ad hoc per i “combattenti degli anni di piombo”. Ma l’ideologo dell’Autonomia – che fino al 7 aprile 1979 aveva incendiato i sabati di molte città italiane – poté tornare nel suo Paese solo dopo 14 anni. Non fu mai oggetto di provvedimenti di clemenza “ad personam” e scontò in tutto 12 anni di detenzione o libertà ristretta. Quando Negri tornò cittadino libero, Craxi era già morto e sepolto (tuttora) fuori d’Italia: inseguito fino al suo ultimo giorno dalla magistratura italiana. La stessa che oggi accusa di deriva dittatoriale il Governo Meloni; e chiude invece entrambi gli occhi sul Premier spagnolo che calpesta Costituzione e ordine giudiziario in nome della crociata contro “le destre europee”.
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