L’omicidio di Giulia Cecchettin, assassinata dall’ex fidanzato Filippo Turetta, ha giustamente sollevato una forte ondata di indignazione e di dolore. Su questo sussulto di angoscia nazionale si è innestata una ridda di interventi pubblici, dichiarazioni, post, prese di posizione su cui val la pena riflettere. Legittimamente c’è chi lamenta il ritardo di tutta la società, a cominciare dallo Stato, nell’assumersi la responsabilità di affrontare la tragedia delle donne assassinate in ambito familiare e affettivo dai propri compagni. Il mondo dello spettacolo (più capace di altri di rendere pubblico un fatto), donne, ma anche uomini, si è mobilitato, da Paola Cortellesi sull’onda del successo del suo film che parla proprio della condizione femminile, a Fiorella Mannoia che non trova le parole, all’immancabile Chiara Ferragni, fino alla vergogna che oggi sente Piero Pelù di essere maschio.
Tra tutte le dichiarazioni spicca quella della sorella della vittima, Elena Cecchettin, la quale ha dichiarato che “Turetta non è un mostro, lui è un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro”. In questo ha ricevuto un vasto sostegno pubblico, fino a quello della scrittrice Valeria Perrella, la quale l’ha definita la nuova Antigone, mostrando che l’uso politico della letteratura è un vizio che non abbiamo ancora perduto. La dichiarazione della sorella di Giulia Cecchettin, infatti, dimostra di essere bene informata di alcuni mantra della cultura femminista in voga: di “cultura dello stupro” si parla dagli anni Settanta e la ridefinizione di società patriarcale è stata aggiornata dalla letteratura femminista agli inizi del nuovo secolo.
Un altro concetto correttamente ripetuto in questi giorni è che l’omicidio in ambito familiare è un problema quasi esclusivamente maschile, nel senso che gli assassini sono quasi tutti uomini: pare che la percentuale di donne che hanno ucciso sia solo del 3,5 per cento, dunque il 96,5 per cento degli omicidi di questo tipo sono perpetrati da uomini. Va tenuto in mente, perché c’è chi gioca su falsi distinguo, magari chiedendo perché si ricordino solo i femminicidi: in pratica, questa è la terribile realtà e non è possibile equiparare i generi in questo caso. Qualche dubbio in più sorge sul concetto di patriarcato, parola usata malissimo, anche alla luce delle nuove spiegazioni. Un altro tragico problema sotto gli occhi di tutti è il numero di madri che uccidono i figli, soprattutto piccoli, ma nessuno si sognerebbe di dare la colpa al matriarcato, che non esiste.
Possiedo un modesto punto di osservazione, cioè quarant’anni di insegnamento nella scuola primaria, il che consente una discreta possibilità di conoscenza degli ambiti familiari, cioè quelli dove accadono i femminicidi. A dir la verità di sistemi patriarcali, definiti dall’oppressione anche fisica dell’uomo sulla donna, sul controllo, sulla violenza, non ne ho incontrati granché, anzi quasi niente. Senza voler commentare la frase di Elena Cecchettin, giustificata dal dolore immane che sta vivendo, andrebbe suggerito a chi ne sta facendo una bandiera politica per le proprie battaglie di osservare con più realismo la situazione educativa nel suo complesso.
Alcuni elementi: innanzitutto il crollo della capacità educativa delle famiglie: genitori assenti, che delegano per poi accusare di incapacità, ad esempio, la scuola, o non hanno alcuna idea di come tirar su i ragazzi; l’intervento massiccio delle agenzie educative più efficaci, cioè i social e i media, intervento che tocca soprattutto la sfera affettiva, l’amore, le relazioni (chiediamoci: qual è il modello di uomo di Maria De Filippi? Il tronista? Come si espongono i corpi, soprattutto femminili, su TikTok?); l’accesso sempre più anticipato alla pornografia, che pare essere ormai mediamente intorno agli otto anni per i maschi, con lo sdoganamento, visto come battaglia per la libertà, anche per le femmine; una casistica diffusa in cui i figli, spesso i bambini, picchiano i genitori in casa; l’assoluto azzeramento di ogni riferimento educativo; oltre che dei genitori, di qualsiasi figura: insegnanti, allenatori, sacerdoti.
Il quadro generale, il tipo umano, soprattutto il tipo maschile, che ne vien fuori è quello della modernità portato alle estreme conseguenze: l’avvento dell’io assoluto è giunto al massimo grado di autoreferenzialità. Le femministe e tutta la cosiddetta galassia dei diritti dovrebbe interrogarsi su questo individuo che abbiamo concepito come arbitro assoluto di sé stesso, tanto da poter decidere non solo sulle libertà sacrosante, ma anche a quale genere, sesso, corpo appartenere quel giorno, o in quale momento farla finita.
Uno specialista psicologo più illuminato della media ha affermato: “L’epidemia di violenza contro le donne, un fenomeno radicato in un profondo narcisismo maschile e sostenuto da una cultura di manipolazione, rappresenta una delle minacce più gravi e pervasive alla sicurezza e al benessere delle donne nella società contemporanea. Questa violenza non si manifesta semplicemente in atti isolati di brutalità, ma piuttosto si svela come un modello sistematico di comportamenti che culminano, nella loro espressione più estrema, nel femminicidio”.
La radice sta in questo narcisismo della modernità, particolarmente acuto nel maschio. L’amore, la forza più potente che avremmo per debellarlo, è stato invece ridotto a elemento del narcisismo stesso. Un tempo sapevamo che amare significava uscire da sé stessi, per affermare l’altro, averne cura fino al sacrificio, perché la persona amata è la parte migliore di noi. Oggi anche gli uomini, da innamorati, fermamente educati all’indiscutibile e arbitraria centralità della propria individualità, affermano solo sé stessi, per cui se la donna amata non corrisponde alla propria immagine, o addirittura smette di contraccambiare, qualcosa salta perché l’altra, semplicemente, deve essere specchio e soddisfazione del proprio io superfetato. Siamo insomma ad un rovesciamento di natura diabolica.
Certo, evidentemente questa regressione riguarda principalmente i maschi, ma è proprio il tipo umano che abbiamo costruito a non tenere più. Non valgono a niente le manifestazioni, tantomeno quelle annunciate con inusuale violenza, se non come segni di vicinanza alle vittime; e, temo, varranno a poco tutte le possibili leggi che qualsiasi governo potrà fare. È la marcia radice narcisistica il punto della questione, e nonostante i doverosi provvedimenti che dovremo prendere presto, nulla lascia presagire che saremo in grado di risolverla, se il livello rimarrà quello sociologico o addirittura politico di tragedie che meriterebbero ben altro approfondimento e coinvolgimento di una risposta di tutti.
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