Sul tormentone del lavoro povero (col sottoprodotto del salario minimo), Giorgia Meloni sta giocando una partita importante. Quando alle opposizioni (esclusa IV) era riuscito il colpo di scena del ddl unitario a prima firma Conte e le opposizioni si erano avvalse dei regolamenti per calendarizzarlo in Commissione, la prima mossa della maggioranza era stata la presentazione di un emendamento soppressivo. Poi quando la notizia di un primo caso di campo largo era stata strombazzata sui quotidiani amici e nei talk show, la maggioranza si era trovata in difficoltà perché non era facile spiegare la sua posizione contraria, quando la storia dei 9 euro l’ora aveva attecchito nell’opinione pubblica, incluso – secondo i sondaggi – l’elettorato di destra. Meloni fiutò l’aria piena di insidie e a luglio il progetto fece una breve apparizione alla Camera per dare modo – si disse – di consentire alla maggioranza di presentare un proprio contributo. Tutti si accanirono nei confronti di un atteggiamento che sembrava una fuga: la maggioranza – questa era la critica – non aveva il coraggio di bocciare il pdl Conte e si trovava impreparata nel merito del dossier.
Qui vi è stato il primo colpo d’ala di Meloni: la convocazione delle opposizioni nei primi giorni d’agosto conclusosi con l’incarico al Cnel di formulare una proposta che non si limitasse aindicare un numeretto in funzione di salario minimo orario, ma allargasse l’orizzonte sulle criticità del lavoro povero nel suo complesso. Il Cnel, messo alla stanga dal suo volitivo presidente, Renato Brunetta, è riuscito a svolgere il compito affidatogli nel tempo previsto, producendo un documento coerente e organico.
Come al solito, le opposizioni non sono in grado di reggere due fronti. Arrivata la sessione di bilancio l’attenzione si è spostata sulla manovra mediante la staffetta tra la manifestazione nazionale del Pd e lo sciopero generale di Cgil e Uil. Il salario minimo ha continuato a trovare posti nei cahiers di doléance agitati nei comizi, ma in una posizione defilata.
Ma ecco il secondo coniglio che Meloni estrae dal cilindro. Per iniziativa di alcuni deputati della maggioranza in commissione Lavoro della Camera (Walter Rizzetto, il presidente in quota Fratelli d’Italia, è il primo firmatario) viene presentato al pdl Conte un emendamento totalmente sostitutivo contenente una linea complessiva sul versante delle relazioni industriali, imperniata sul primato della contrattazione. Il clou è una delega al Governo da esercitare entro sei mesi.
Come vedremo alcune norme (succede in tutte le deleghe) sono poco più di un programma, altre invece sono molto precise tanto da poter essere operative nei tempi previsti. Nell’insieme non sarà facile per le opposizioni accusare la maggioranza (il Governo si è tenuto in disparte) di ignorare il lavoro povero, la contrattazione collettiva e quant’altro sta attraversando un periodo di grande sofferenza (se si pensa che i contratti di 7,7 milioni di lavoratori sono scaduti, mentre 3,5 milioni di lavoratori, in larga misura coperti da contratti stipulati dalle confederazioni storiche, percepiscono una retribuzione inferiore ai 9 euro).
Il meccanismo indicato dall’emendamento dovrebbe consistere nella definizione, per ciascuna categoria, i contratti collettivi più applicati in riferimento al numero delle imprese e dei dipendenti, al fine di prevedere che il trattamento economico complessivo minimo del contratto maggiormente applicato sia, ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione, la condizione economica minima da riconoscersi ai lavoratori nella stessa. Questo trattamento include più elementi rispetto al salario minimo e viene già definito come tale in diversi contratti. Se il criterio dell’applicazione è quello che conduce a riconoscere il contratto “primogenito” ci vorranno anche dei criteri per una corretta individuazione dei parametri necessari. La delega, in proposito, è abbastanza precisa: gli strumenti di misurazione si baseranno sull’indicazione obbligatoria del codice del contratto collettivo applicato al rapporto nei flussi UNIEMENS, nelle comunicazioni obbligatorie e nelle buste paga, ciò anche al fine del riconoscimento di agevolazioni economiche connesse ai rapporti di lavoro e contributive.
Poiché viene affidato un ruolo effettivo alla contrattazione collettiva, non sembra possibile tollerare una situazione in cui le procedure stabilite per i rinnovi si siano anchilosate. Così la delega prevede che per ciascun contratto scaduto e non rinnovato entro i termini previsti dalle parti sociali o comunque entro congrui termini, e per i settori nei quali manca una contrattazione di riferimento, divenga operante l’intervento diretto del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali per adottare le misure necessarie a valere sui soli trattamenti economici minimi complessivi, tenendo conto delle peculiarità delle categorie di riferimento e, se del caso, considerando i trattamenti economici minimi complessivi previsti da contratti collettivi più applicati vigenti in settori affini.
I trattamenti attinenti alla filiera degli appalti costituiscono una grossa preoccupazione per i sindacati. La delega si fa carico di innovare in questa materia. Per i settori degli appalti di servizi di qualunque tipologia sarà sancito l’obbligo per le società appaltatrici e subappaltatrici di riconoscere ai lavoratori coinvolti nell’appalto trattamenti economici complessivi minimi non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi più applicati nella categoria nel quale l’appalto si sviluppa. Coerentemente, saranno rafforzate le misure di verifica e controllo poste in capo alle stazioni appaltanti con il fine di rendere effettivi gli obblighi quivi previsti.
Vanno poi segnalati i buoni propositi in materia di contrattazione decentrata. Andranno individuati strumenti di incentivazione rivolti a favorire lo sviluppo progressivo della contrattazione di secondo livello con finalità adattive, anche per fare fronte alle diversificate necessità derivanti dall’incremento del costo della vita e correlate alle differenze dei costi su base territoriale. Saranno disciplinati modelli di partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili d’impresa, fondati sulla valorizzazione dell’interesse comune tra i lavoratori e l’imprenditore alla prosperità dell’impresa stessa. Sembrano queste le questioni più importanti.
Per concludere, è bene ricordare che se l’operazione che ha ispirato l’emendamento dovesse avere successo, le nuove norme libereranno l’ordinamento sindacale dall’ossessione di una legge sulla rappresentanza che abiliti i sindacati considerati comparativamente più rappresentativi ad avere il monopolio della contrattazione. La delega rovescia questa impostazione e riconosce il bollino blu ai contratti non in base a chi li stipula, ma in ragione di quanti li applicano.
Qui casca l’asino dei c.d. contratti pirata che la delega intende “crocefiggere in sala mensa”. È evidente che per stabilire quale sia il contratto più applicato rende indispensabile disegnare le platee di riferimento. Altrimenti potrebbe succedere che in un ambito ristretto risulti più applicato proprio un contratto pirata. Il caso non è di facile soluzione perché nell’attuale ordinamento sindacale non esistono più, come nel periodo corporativo, categorie definite in maniera ontologica. Ma la platea a cui si applica un contratto di diritto comune è liberamente definita dalle parti sociali per il tramite del negoziato. Non è questa un’obiezione da poco. Per capirci: durante il periodo corporativo la composizione della categoria dei metalmeccanici era definita in via amministrativa prima che si stipulassero i c.d. accordi corporativi applicati in quell’ambito. Queste ripartizioni sono rimaste anche nel caso dei contratti di diritto comune. Si tratta però di una libera scelta delle parti che può essere cambiata, con ulteriori incorporazioni o con esclusioni o allocazioni in altre “parentele”. È evidente che più si restringe la platea, più si corre il rischio di colpi di mano di organizzazioni non rappresentative. Per evitare questo rischio (molto improbabile) le soluzioni ci sono. Basta cercarle.
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