Sessant’anni fa, il 22 novembre 1963, si concludeva a Oxford il pellegrinaggio terreno di Clive Staples Lewis, iniziato centoventicinque anni fa a Belfast (29 novembre 1898). Per un’appassionata presentazione della vita e dell’opera di questo uomo, rimandiamo all’incontro di Edoardo Rialti presso la Fondazione San Benedetto di Brescia in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Lewis (2013), e a due relazioni tenute al Centro Culturale di Milano (1995, 2003) da Walter Hooper, amico e segretario di Lewis.
Dopo anni di rifiuto della fede cristiana protestante ereditata nella casa paterna e dopo un lungo cammino da ateo convinto, in seguito ad un intenso travaglio interiore nonché grazie all’amicizia autentica e alle accese conversazioni con alcuni suoi colleghi cristiani, tra cui John Ronald Reuel Tolkien e Henry Victor Dyson Dyson – fondamentale per Lewis il dialogo che ebbe insieme a questi due amici il 19 settembre 1931 durante una passeggiata serale nei prati del Magdalen College di Oxford – Lewis si converte, tornando a credere fermamente e definitivamente nel Crocifisso Risorto. Nell’ottobre del 1933 Tolkien scrive nel suo diario riguardo all’amicizia di Lewis: “Oltre a darmi costante piacere e conforto, mi ha fatto molto bene, mettendomi a contatto con un uomo al contempo onesto, coraggioso, intellettuale – uno studioso, un poeta, un filosofo – e un innamorato, per lo meno dopo un lungo pellegrinaggio, di Nostro Signore”.
Per rendere ragione della speranza custodita nel suo itinerario di conversione, nel 1933 Lewis pubblica un romanzo autobiografico in forma allegorica, dal titolo Il ritorno del pellegrino (The Pilgrim’s Regress), non privo di un’allusione benevolmente ironica al racconto allegorico religioso di John Bunyan (1628-1688), L’avanzamento del pellegrino da questo mondo a quello che verrà (The Pilgrim’s Progress, I. 1678, II. 1684). Nella postfazione alla terza edizione del suo libro Lewis spiega come, nel corso della sua vita, abbia fatto sempre di nuovo esperienza di un desiderio (longing) acuto come il dolore e, al contempo, fonte di profonda gioia, rispetto al quale ogni oggetto e fine terreno si rivelava ultimamente inadeguato ed impreciso. Egli apprende questo in un pellegrinaggio non esente da tentazioni, errori, auto-inganni e cadute, da cui però subito si rialza per riprendere la marcia con rinnovata speranza: “Perciò mi è parso che se un uomo seguisse diligentemente questo desiderio, perseguendo gli oggetti falsi finché apparisse la loro falsità e poi li abbandonasse risolutamente, dovrebbe alla fine pervenire alla conoscenza chiara che l’anima umana fu fatta per godere qualche oggetto che non è mai pienamente dato – anzi, non può nemmeno essere immaginato come dato – nel nostro modo di esperienza soggettiva e spazio-temporale. Questo Desiderio era, nell’anima, come il Siege Perilous, lo Scanno Pericoloso, nel castello di Artù – lo scanno su cui poteva sedere uno solo. E se la natura non fa nulla invano, l’Uno che può sedere su questo scanno deve esistere”.
Lewis conosce e descrive come pochi autori contemporanei la dinamica paradossale del Desiderio: esso ha a che fare con la vera Gioia (Joy), che egli vede nettamente distinta dalla felicità (happiness) e dal piacere (pleasure) e ad ambedue irriducibile. La Gioia non può essere volontariamente cercata, prodotta o pretesa come e quando si vuole, bensì può solo essere umilmente mendicata, vigilmente attesa e accolta ogniqualvolta sia donata. Essa passa improvvisa nelle vite degli uomini, così come il leone Aslan arriva inaspettato a Narnia, e allora sono i semplici di cuore ad incontrarlo per primi e a obbedirgli. Nel film diretto da Andrew Adamson, Il leone, la strega e l’armadio (2005), la giovane Susan e la strega, in due contesti differenti, dicono la medesima parola – “impossibile!” – conferendole però un significato diametralmente opposto: la strega la esclama incredula e terrorizzata sul campo di battaglia, nell’ora della sua morte, alla vista di Aslan risorto, che lei stessa aveva sgozzato come mite agnello immolato sulla Tavola di Pietra. Susan, invece, la pronuncia al suo primo ingresso nel mondo di Narnia, con lo sguardo semplice di chi crede che nulla è impossibile a Dio e che Egli ha preparato per coloro che lo amano “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo” (1Cor 2,9). Quello di Susan (e, prima ancora, di Lucy) è l’“occhio semplice” di cui parla Gesù (Mt 6,22), l’unico atteggiamento di obbediente adesione filiale al modo in cui il Signore disegna il nostro volto e la nostra storia, inserendola misteriosamente nella Grande Storia di cui Egli è geniale Autore e Regista (e, last but not least, miglior Attore protagonista), chiedendoci al tempo stesso di collaborare con impegno al Suo disegno accogliendo il Volere del Padre, come esprime il testo di un bel canto composto dal padre Antonio Maria Sicari: “Con occhi semplici voglio guardare della mia vita svelarsi il mistero…”.
Il desiderio della Gioia di cui è intessuta ogni fibra dell’essere umano e l’“io” stesso dell’uomo non sono a sua disposizione, di essi egli non può vantare alcuna conoscenza o possesso autonomi: “L’oggetto a cui anelate vi ordina di uscire, di allontanarvi dall’‘io’, lo stesso desiderio vive soltanto se lo abbandonate. Questa è la legge suprema: il seme muore per vivere, […] colui che perde l’anima sua la salverà” (The Problem of Pain, 1940). E in un talk per la BBC (Beyond Personality, 1944), afferma: “È quando io torno a Cristo, è quando mi offro alla Sua personalità che io per la prima volta inizio ad avere una reale personalità mia propria. […] Finché tu non ti sei offerto a Lui non avrai un ‘io’ reale. L’identicità si trova soprattutto tra gli uomini più ‘naturali’, non tra coloro che si arrendono a Cristo. Quanto monotonamente simili sono stati tutti i grandi tiranni e conquistatori: quanto gloriosamente differenti sono i santi. Ma deve esserci una vera rinuncia dell’io. Tu devi gettarlo via ‘ciecamente’ per così dire. Cristo allora ti darà una reale personalità: ma non devi andare a Lui per raggiungere quel fine. Fintantoché la tua personalità è ciò di cui ti stai preoccupando, tu non stai andando affatto verso di Lui”.
Una simile concezione dell’unicità del proprio volto e della propria vocazione, incomparabili con quelli di chiunque altro e dipendenti unicamente dalla relazione di Dio con ciascun uomo e dalla risposta di ogni uomo a Dio, si ritrova ne I racconti dei Chassidim di Martin Buber (1949), nell’effato del rabbino Sussja di Hanipol, intitolato La domanda delle domande: “Prima della morte il rabbi Sussja disse: ‘Nel mondo che verrà non mi sarà chiesto: Perché non sei stato Mosè?. Mi sarà chiesto: Perché non sei stato Sussja?’”.
Nella postfazione a The Pilgrim’s Regress, Lewis chiarisce che la mappa da lui fatta stampare nella prima pagina del romanzo, con le due strade militari ferrate che da nord a sud convergono come artigli o tentacoli verso il paese dell’Anima dell’Uomo, rappresenta un quadro piuttosto preciso della “Guerra Santa” come la vede lui. Lewis fece esperienza diretta della Prima guerra mondiale come soldato in trincea (estate 1917 – primavera 1918) e sa che all’uomo in ogni caso non è mai risparmiata la lotta nel suo pellegrinaggio verso la Patria: nella mappa egli, pertanto, rappresenta il duplice attacco dell’inferno sui due lati della nostra natura. Inoltre, notiamo che l’espressione “Guerra Santa” da lui impiegata allude ad un romanzo allegorico di John Bunyan, The Holy War Made by King Shaddai Upon Diabolus, to Regain the Metropolis of the World, Or, The Losing and Taking Again of the Town of Mansoul (1682). Nel tempo del pellegrinaggio ogni battaglia non è mai quella definitiva né tutte possono essere vinte, poiché gli attacchi del nemico sono furiosi, incessanti e condotti su più fronti contemporaneamente. Lewis insegna che ciò che conta, allora, è partecipare fin d’ora della vittoria del “leone della tribù di Giuda” (Ap 5,5) che ha già vinto l’“ultima guerra”, e di combattere la buona battaglia con quell’atteggiamento di gioiosa speranza ben espressa dalle parole e dalla musica di un mottetto di Luca Marenzio (1553-1599): “Siate forti in guerra e combattete, combattete contro l’antico serpente. E riceverete il Regno eterno. Alleluja!”. Chissà se Lewis poté mai ascoltare questo canto polifonico eseguito da un coro universitario di Oxford o di Cambridge? In ogni caso siamo certi che, se avesse potuto ascoltarlo cantato come preghiera da un coro di giovani cattolici universitari d’Italia, avrebbe esultato di gioia.
Dunque, più che favole leggère da buonanotte e ben più che pesanti trattati dimenticati in polverosi scaffali di sperduti magazzini di biblioteche universitarie, le opere di C. S. Lewis non sono niente di meno di una vibrante e sempre attuale chiamata alla guerra, perché “il Cielo è dei violenti”, ma non secondo la violenza di “quell’orribile forza” (That Hideous Strength, 1945), ma secondo quella cantata dal Padre Dante:
“Regnum coelorum violenza pate
da caldo amore e da viva speranza,
che vince la divina volontate;
non a guisa che l’omo a l’om sobranza,
ma vince lei perché vuole esser vinta,
e, vinta, vince con sua beninanza”
(Paradiso, XX, 94-99).
(1 – continua)
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