Il biennio della pandemia, con gli stop and go dei lockdown, ha segnato le nostre vite più di quanto spesso siamo disposti ad ammettere. È stato anche un processo di accelerazione di tendenze e fenomeni che si stavano affacciando alla realtà e che hanno così prodotto cambiamenti in tempi più rapidi di quelli con cui si manifestano i fenomeni sociali.
Il lavoro è stato investito in pieno da questi cambiamenti. Intorno alla possibilità di delocalizzare i luoghi di lavoro si era appena aperto un dibattito fra esperti ed ecco che un gran numero di lavoratori sono stati costretti al lavoro a distanza.
La pandemia ha colpito i diversi settori produttivi in modo diversificato. Alcune attività hanno visto crescere la loro indispensabilità e sono cresciute mentre franava tutto il resto, altri lavori sono stati completamente azzerati per due stagioni. Soprattutto nel settore servizi a famiglie e persone, c’è stato un grande rimescolamento dell’occupazione.
Quando siamo usciti dal periodo dei blocchi niente è rimasto come prima. Le imprese hanno segnalato la necessità di accelerare sul fronte delle innovazioni tecnologiche e della sostenibilità. La digitalizzazione e l’avvio dell’utilizzo dell’Intelligenza artificiale cambia i lavori, l’organizzazione del lavoro, anche i prodotti e tutto ciò richiede l’impiego di competenze nuove. Non è solo l’esperienza del lavoro a distanza che porta alla crescita dello smart working, ma anche un nuovo modo di organizzare spazi e tempi del lavoro.
A cavallo della fine dei vincoli imposti dalla pandemia il dibattito sembrava assorbito esclusivamente dalla percentuale di lavoratori che sarebbero tornati in ufficio e quanti avrebbero lavorato da casa. Quando però il mercato si è rimesso in moto abbiamo registrato fenomeni diversi da quelli attesi.
“Great resignation” e “quiet quitting” sono diventati termini diffusi negli articoli che descrivono quanto accade sul mercato del lavoro. Si tratta di termini inglesi, perché i fenomeni sono stati registrati prima negli Stati Uniti, che stanno per “grandi dimissioni” e per “fare il meno possibile”.
Cercano così di fotografare due sommovimenti in atto nei posti di lavoro. In primo luogo, i lavoratori, mentre il dibattito era fra il tornare o meno in ufficio, si sono messi in movimento. Che dopo il blocco dei movimenti sul mercato del lavoro ci fosse una ripresa di assunzioni era previsto. Che ci fosse però un incremento di dimissioni volontarie delle dimensioni registrate è stato completamente inatteso. Il movimento ha coinciso con una fase di crescita complessiva dell’occupazione, non è quindi dovuto alla necessità di ricollocarsi per crisi occupazionali.
Nello stesso tempo è emersa presso alcuni settori una stasi della produttività delle persone. Come se il ritorno al lavoro in sede avesse portato con sé una stanchezza e uno stress che portano a fare giusto il minimo indispensabile per non incorrere in sanzioni.
Con proporzioni diverse nei numeri gli stessi fenomeni sono stati registrati anche nel nostro Paese. La somma di dimissioni volontarie e poca collaborazione sul lavoro ha portato molti a fermarsi a osservare la superficie dei fenomeni e parlare di rifiuto del lavoro.
Le ricerche fatte in Italia per comprendere quanto sta accadendo ci portano però a dare un giudizio diverso. Le grandi dimissioni sono sempre seguite da grandi ricollocazioni. Cioè si dimettono per lo più perché hanno un altro lavoro (60%) o lo trovano dopo pochi giorni (32%). I rimanenti sono in nuovi percorsi formativi o sono ritiri per ragioni di assistenza famigliare. Quasi la totalità degli intervistati dopo le dimissioni si è dichiarata soddisfatta della scelta fatta.
Contano allora le ragioni di questa scelta. Mettiamo subito da parte quelle esclusivamente economiche. Ci sono e hanno la loro rilevanza soprattutto in questa fase di erosione dei salari da parte dell’inflazione e in assenza di aumenti contrattuali. Non sono però i salari la variabile più importante. Clima aziendale, trasparenza dei percorsi formativi e di crescita professionale e conciliazione dei tempi di vita e lavoro sono le motivazioni principali. Per le donne pesano maggiormente le ragioni di bisogno della famiglia, rimarcando che la parità di opportunità e di scelta non sono ancora raggiunte.
Il cambiamento culturale più marcato è però fra giovani sotto i trent’anni e il resto della popolazione. Fra i giovani la differenza maschi-femmine è meno marcata ed è un segnale positivo sul cambiamento in corso. La differenza più significativa è però quella sulle motivazioni delle scelte rispetto a quelle dell’insieme della popolazione lavorativa.
Per i più giovani, la variabile economica conta ancora meno. Le condizioni in cui svolgere il lavoro, i valori dell’impresa, i rapporti con la struttura di impresa, i tempi e la flessibilità per conciliare impegni di vita e di lavoro, la possibilità di contrattare flessibilità e percorsi formativi e di crescita escono con ancora più forza.
Si tratta allora di chiedersi quale domanda viene espressa verso il lavoro attraverso queste motivazioni che guidano le scelte dei più giovani arrivati sul mercato del lavoro.
Non c’è un rifiuto del lavoro. Si cambia per lavorare meglio. Se il lavoro è ancora un ambiente di comando dall’alto e di organizzazione verticistica e rigida ci si tiene da parte e si fa giusto il minimo indispensabile. La stessa nuova organizzazione portata dalle nuove tecnologie chiede a tutti i livelli una maggiore partecipazione della persona con tutte le sue competenze tecniche ma anche con tutte le qualità personali (o soft skills).
La domanda che emerge è allora una ricerca nuova di senso del lavoro attraverso il recupero del lavoro come relazione con gli altri, ma anche con la realtà nel suo complesso.
Anni fa una canzonetta prevedeva il futuro dicendo “vedrai come è bello lavorare con piacere in una fabbrica di sogno tutta luce e libertà”. Oggi il lavoro può esser alleggerito da macchine e digitalizzazione. Può essere svolto a distanza e senza un’organizzazione rigida di tempi e modi. La domanda che sembra venire avanti ci ricorda che a svolgerlo c’è una persona pensante che mentre svolge i suoi compiti ne chiede ragione e apre una sfida all’impresa e ai corpi intermedi del mondo del lavoro per trovare nel lavoro la maggiore soddisfazione possibile.
Chi ha teorizzato la fine del lavoro e una vita di sussidi non è mai riuscito a trovare la data in cui fare partire il suo progetto. Il lavoro è parte dell’azione generativa della persona nella realtà e quando il sistema produttivo tende a sacrificare questa spinta, che sta nell’essere delle persone, si ripropongono le domande di senso sui temi che formano la coscienza del tempo in cui viviamo.
La domanda che viene dai giovani attraverso il loro modo di porsi al lavoro è una sfida che riguarda tutti per gettare le fondamenta per un lavoro che non solo non sia in conflitto con la vita, ma la arricchisca.
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