Caro ministro Valditara,
grazie del pensiero e dell’attenzione, ma noi non abbiamo bisogno dell’ennesima educazione da inserire nei nostri curricola scolastici. Non abbiamo bisogno di altre ore, né di laboratori, né di esperti esterni, per dedicare tempo e attività a questioni sensibili o emergenziali o d’attualità. Tutto questo c’è già, da decenni, per varie tematiche, in tantissime scuole superiori del regno (anche se in misure diverse fra primo e secondo grado, fra istituti più o meno progettuali): bullismo e cyberbullismo, alimentazione, dipendenze, educazione stradale (bicicletta, auto, monopattino), cittadinanza, star bene a scuola, salute (soprattutto prevenzione e conoscenza malattie tumorali e malattie sessualmente trasmissibili), ecologia, per arrivare infine alla trasversale educazione civica.
Quindi, no, grazie: non abbiamo bisogno di educazione all’affettività o educazione sentimentale, imposta per legge e spalmata dentro le nostre mattine, con un pugno di ore annue, momenti dedicati, esperti esterni. Noi vogliamo di più. Noi tanti docenti che già impartiamo quell’educazione. Noi docenti che, ogni minuto di ogni mattina in ogni classe, educhiamo già alle relazioni positive, all’accoglienza dell’altro, al rispetto reciproco, alla salvaguardia della persona, qualunque essa sia, a prescindere da genere, colore, ruolo sociale. Purtroppo, complice la solita Chernobyl mediatica, Lei e tantissimi altri avete dei dubbi sull’efficacia di questa educazione che noi riteniamo già presente nelle nostre finalità, non solo personali ma anche normative: non Le devo certo dire io di andare a rileggere le Linee guida, che sono chiarissime e anche (ecco il punto dolente) molto più avanti dell’operato e della consapevolezza di tanti nostri colleghi.
Ecco allora ciò di cui abbiamo davvero bisogno: innanzitutto, servono insegnanti consapevoli della ricchezza educativa già presente nei nostri documenti di riferimento, che devono diventare il punto di partenza per la progettazione didattica, non quello di arrivo; infatti, nel primo caso, vaglierò le mie proposte didattiche con finalità formative reali e specifiche (a cosa serve questo? quale obiettivo ho proponendo quest’altro?); invece, nel secondo caso, mi limiterò a seguire il libro di testo, o comunque a una serie di contenuti e conoscenze di un programma che invece, di fatto, non esiste più, perché sostituito appunto da traguardi, livelli, competenze da raggiungere. Eh sì, questo spaventa di più, perché chiede ai docenti di riflettere criticamente, di avere obiettivi a lungo termine, di modificare in corso d’opera, di tagliare e cucire e rifare, di rischiare maggiormente sulla libertà di risposta degli alunni, di lasciare l’ansia del voto e della verifica e dei test.
Ecco, questa è la prima rivoluzione culturale e ideale che deve accadere ma, ahimè, non dipende da Lei, bensì da ogni singolo educatore che entra in aula e guarda fino in fondo quelle facce che ha davanti, desiderose di qualcuno che dica qualcosa su loro stessi e sulla vita, rispondendo anche alla domanda così tanto temuta dagli adulti, cioè “perché devo studiare questo?”.
E qui arriviamo al nostro secondo bisogno: servono docenti consapevoli della portata educativa delle discipline che insegnano. Non solo la norma ci permette di costruire percorsi adeguati alle esigenze sempre più complesse della nostra “meglio gioventù” (sì, sono i migliori giovani di sempre, io ne sono certa!), ma abbiamo fra le mani una ricchezza che forse dobbiamo riscoprire. Infatti, tanti professori stanno dicendo che già facciamo educazione ai sentimenti “stando con loro, comportandoci in un certo modo, dando certe regole, con la psicologa di istituto”. Embè? Tutto qui? Un certo atteggiamento fra una verifica e l’altra, tra un esercizio e un teorema, è tutto quello che possiamo offrire? Oppure, anche un bel dialogo davanti a un caffè con l’alunno smarrito? Certo, tante volte anche io mi trovo a dialogare di questioni importanti coi miei ragazzi, ma la sfida è ancora più alta, l’onere e l’onore è molto più ampio.
Ogni disciplina è un punto di vista specifico sulla realtà e offre un metodo di conoscenza di sé stessi e della realtà; ogni disciplina ha la possibilità, quindi, di educare i ragazzi al bene, al giusto, al vero. Ogni docente deve riappropriarsi dell’epistemologia della propria disciplina e riscoprire quale contributo educativo offre ai propri alunni. Se non è così, allora significa che noi offriamo qualcosa che non c’entra con la vita, quella vera, quella fuori dai banchi. Ed infatti è quello di cui tante volte ci accusano proprio quei ragazzi che hanno bisogno di parlare del volto che amano, dell’amico che tradisce, del genitore che se ne è andato, insomma di tutti quello che serve per capire come si fa a stare al mondo. Ogni disciplina è innanzitutto una storia, una narrazione, che simula la vita e i nostri giovani hanno bisogno di storie con cui identificarsi o paragonarsi o scontrarsi; da piccoli servivano loro le fiabe, col loro mondo metaforico e ancestrale; adesso servono loro storie, narrazioni, che rimettano al centro corpi e relazioni, sangue e significati, cuore e ragione.
Vogliamo parlare di amore, vero o tossico, di rapporto fra mondo maschile e femminile, pari o impari che sia? Per gli amanti del classico “irrinunciabile”: Penelope ed Elena, Beatrice e Laura, Ofelia e Isotta, Giulietta, Jo March, Anna Karenina, Jane Eyre, Catherine Earnshaw, Elizabeth Bennet, Emma Bovary. Per chi invece ama la contemporaneità, ci sono le storie di Hosseini, Mazzantini, Avallone, Igiaba Scego, Chimamanda Ngozi Adichie. Per chi è più audace, le storie di Aidan Chambers, di Alice Oseman, di Reynolds, di Brooks. Vogliamo poi citare il Simposio e il Fedro di Platone, oppure le Etiche di Aristotele? E dalla filosofia legarsi alla scienza, con le sue analisi che mai esauriscono il mistero della persona (Inside out docet) ma che sono sempre più necessarie, perché i nostri ragazzi hanno smarrito il senso della propria corporeità ed è anche per questa misconoscenza che non sanno gestirla.
Per non parlare poi del contributo dell’arte, con le tante visioni possibili dell’amore. Oppure ancora della tecnologia, che può avere un ruolo basilare nella gestione della comunicazione virtuale e di tutte le esperienze amorose maltrattate dentro lo schermo.
Ma non sfugge a questa enorme possibilità educativa nemmeno la matematica: non sarà che le gravi difficoltà in tale disciplina hanno a che fare con l’assenza di un orizzonte affettivo nelle modalità di apprendimento con cui spesso viene proposta? Cosa c’entra l’affettività (motivazione, sentimento di sé, significatività dell’apprendimento) col fare matematica? Può un problema essere una narrazione in cui l’io e la realtà esterna sono coinvolti? Insomma, caro Ministro, come vede la scuola ha una valigia ben fornita di strumenti ed è pronta alla sfida educativa. I docenti lo sono?
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