Grethe Kjaer, studiosa danese dell’opera di Sören Kierkegaard, in un suo contributo biografico su Kierkegaard ricorda che, un anno dopo la morte di questi, nell’aprile 1856 si era tenuta a Kopenhagen un’asta riguardante una parte della ricca biblioteca privata dell’autore. In quell’occasione, con sorpresa di molti, accanto alle numerose opere classiche, greche e latine, e a quelle filosofiche e teologiche, si era scoperto che il grande pensatore danese possedeva almeno un migliaio di diversi volumi dedicati al genere della fiaba, tra cui spiccavano alcune edizioni, le prime, delle Fiabe del focolare dei fratelli Grimm. Kierkegaard conosceva bene il lavoro dei due linguisti tedeschi, che, a partire dal 1806, si era concentrato sulla raccolta delle tradizioni fiabesche germaniche, rimanendo nello stesso tempo aperto anche alla ricerca su altre aree culturali proprie di questo genere, per esempio le fiabe popolari irlandesi e serbe. Non si trattava solo dell’eredità della cultura romantica, allora vivissima in Danimarca, ma di un vero e proprio fascino che il racconto fiabesco discretamente esercitava sull’animo e sul pensiero di Kierkegaard.
Nella cultura danese del tempo permaneva un vivo interesse per il misticismo e la sensibilità medievali, così come era stata presentata dai grandi autori del romanticismo inglese e tedesco, ma, nel caso di Kierkegaard, c’era qualcosa di più. Lo si può cogliere nelle poche, ma essenziali, citazioni esplicite delle Fiabe dei Grimm, poste all’interno di passaggi decisivi delle sue opere più significative.
Così nel Concetto dell’angoscia, dove per spiegare che il passaggio attraverso l’angoscia (termine che in danese e in tedesco indica anche la paura) è necessario alla fede ed è ben distinto dalla disperazione, Kierkegaard cita proprio una non notissima fiaba dei Grimm, la Storia di uno che se ne andò in cerca della paura.
La fiaba, che qui riprendiamo solo nel suo inizio (così a qualche lettore verrà voglia di cercarla, “per sapere come va a finire”), racconta di due fratelli, uno giudizioso e prudente, l’altro un po’ tonto. “Se c’era qualcosa da fare, toccava sempre al maggiore; ma se il padre lo mandava a prendere qualcosa di sera o addirittura di notte, e la strada passava vicino al cimitero o a qualche luogo terrificante, egli rispondeva: ‘Ah, padre, mi viene la pelle d’oca!’, poiché era pauroso. Oppure quando di sera, accanto al fuoco, si raccontavano delle storie da far rabbrividire, coloro che ascoltavano dicevano a volte: ‘Ah, mi viene la pelle d’oca!’. Il minore non capiva che cosa fosse quell’arte (l’avere la pelle d’oca) e, quando il padre decise di dargli una mossa invitandolo a scoprire il mondo, rispose, serissimo, che, sì, anche a lui sarebbe piaciuto imparare ad avere la pelle d’oca, suscitando in tal modo l’ilarità e il disprezzo del fratello maggiore e del padre”.
Ovviamente (come quasi sempre nel mondo delle fiabe) c’è un lieto fine e il giovane tontolone sposerà niente di meno che la figlia del re. È così nelle fiabe, specie in quelle dei cristiani Grimm: chi si umilia, sarà esaltato… Per inciso, il più giovane imparerà anche che cosa vuole dire avere la pelle d’oca, ma solo alla fine, dopo essere stato accolto nella casa del re, e non per ciò che “normalmente” fa paura, mentre del furbo fratello maggiore semplicemente si perdono le tracce.
Commentando questa fiaba, dai contenuti molto gotici e noir, Kierkegaard conclude: “Se l’uomo fosse soltanto un animale o soltanto un angelo, non potrebbe provare l’angoscia. Ma poiché è una sintesi di entrambi, l’uomo può sentirla, e quanto più l’angoscia è profonda, tanto più grande è l’uomo. (…) L’angoscia è la possibilità della libertà. È soltanto questa angoscia che, attraverso la fede, ha la potenza di educare e di formare l’uomo in modo assoluto, in quanto distrugge tutte le finitezze e smaschera tutte le illusioni”.
Così la fiaba citata diventa la metafora di quella condizione esistenziale che rende possibile accogliere il dono della fede, rompendo le illusioni e le immagini che imprigionano l’uomo troppo comune (come fa il protagonista della fiaba nella sua assoluta ingenuità). E, poiché illusorio è tutto ciò che è puramente esteriore (come gli spettri che vorrebbero terrorizzare il protagonista della fiaba), tra le illusioni Kierkegaard ci mette anche quella della “cristianità” stabilita, nella sua crescente polemica con la chiesa luterana di Stato in Danimarca (la sua), che per lui è un ostacolo al “cristianesimo” autentico, inteso come “comunicazione di esistenza”, una “Existents-Modsigelse” (in danese) o “Existenz-Mitteilung” (in tedesco), come scrive nella Postilla.
A Kierkegaard delle Fiabe colpiva questa capacità metaforica di descrivere il cuore dell’esistenza umana, cioè qualcosa che non si spiega, ma si incontra ed esperimenta e, solo se incontrato, si apre alla comprensione. Sarà anche per questo che lui, il più radicale avversario dell’hegelismo nell’Europa del tempo, al “professore di Berlino che dalla sua cattedra pretendeva di spiegare il mondo” preferiva decisamente l’immaginazione simbolica delle fiabe popolari. Non c’è solo il tontolone che voleva scoprire che cos’è la paura, ci sono anche La saggia Elsa (sempre nel Concetto dell’angoscia), che in realtà è ben poco saggia, e Il sarto in paradiso (in Timore e tremore).
Soprattutto, però, c’è in Enten-Eller l’apologo (ma ha la struttura di una fiaba breve e tragica) del clown che corre ad avvertire il pubblico del circo dell’incendio scoppiato nel villaggio. Più grida e piange, nel suo abito da clown, e più la gente ride, sinché il villaggio è distrutto completamente. Non è un caso che il medesimo apologo sia stato ripreso, un secolo dopo, da Joseph Ratzinger all’inizio della sua Introduzione al cristianesimo (1968) per descrivere la situazione del cristiano nel mondo di oggi: più grida che il mondo sta bruciando, e meno viene creduto. Ancora una volta è una metafora a dire quello che diversamente si può solo accennare; e ancora una volta il mondo delle fiabe si rivela per quel che è: un approccio immediato e simbolico alla complessità inesauribile del reale.
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