Ma davvero le democrazie di stampo occidentale stanno tutelando uno dei valori fondamentali dei diritti dell’uomo, l’eguaglianza? E fino a che punto le diseguaglianze minacciano l’ordine internazionale?
Domande epocali che comunque val la pena di porsi in un momento di crisi globale delle certezze che hanno dominato la scena geopolitica emersa dalla Seconda guerra mondiale. Un quadro che, ultimo esempio l’affermazione dei sovranisti alle elezioni in Olanda (la terra che diede ospitalità a Spinoza, il filosofo della tolleranza), mostra ormai i segni dell’usura. A farci riflettere sul tema dell’eguaglianza degli individui e delle nazioni, ci aiutato i lavori di due studiosi: il professor Guido Alfani, docente di storia economica in Bocconi, autore di un articolo sul New York Times che riprende un suo saggio di prossima pubblicazione in Usa dal titolo, As Gods Among Men: A History of the Rich in the West (“Come Dei tra gli uomini: una storia della ricchezza in Occidente”); il secondo contributo è tratto da intervento su Le Monde di Thomas Piketty, in cui l’economista contesta “l’arroganza degli Occidentali che non prendono sul serio i Brics”.
Alfani ricostruisce il ruolo sociale affidato nel corso dei secoli ai ricchi, intesi come “una sorta di riserva privata di denaro a cui attingere nei momenti di maggior necessità”. Insomma, per dirla con l’umanista toscano Poggio Bracciolini nel trattato De Avaritia, i ricchi venne considerati alla stregua di “granai privati di denaro”: così come le autorità accumulavano riserve pubbliche di cibo a cui attingere nei momenti di carestia, le comunità avevano bisogno dei ricchi («molti individui avidi», li definiva Bracciolini) per attingere ai loro patrimoni nei momenti di difficoltà collettiva. Esempi del genere si trovano in Borgogna (dove ancora oggi esiste l’Hotel Dieu), senza dimenticare i prestiti forzosi imposti da Venezia ai suoi cittadini più ricchi dopo la peste del 1630 durante la guerra contro l’Impero Ottomano nel 1645-69, ma anche i “Liberty Bond” emessi negli Stati Uniti nel 1917-18 per finanziare la partecipazione alla Prima guerra mondiale o la tassazione progressiva al servizio del welfare introdotta dai laburisti dopo la guerra.
Il principio è progressivamente andato in crisi negli anni Ottanta, sotto la pressione delle riforme dell’era Reagan. Oggi, nonostante la crisi del debito che colpisce in pratica tutti i Paesi, emergenza Covid compresa, i ricchi si sono opposti alle riforme volte a sfruttare le loro risorse per finanziare politiche di redistribuzione delle risorse. Questo, spiega Alfani, rischia di minare alle fondamenta la democrazia: la società è diventata instabile, portando a disordini, rivolte aperte e violenza anti-ricchezza L’Italia rischia di essere un caso di scuola: in termini di disuguaglianza il nostro Paese occupa la terza posizione, dopo Stati Uniti e Spagna. Ce n’è abbastanza per sostenere che l’ineguaglianza è all’origine della crisi di consenso di un Paese che ha rinunciato a far funzionare l’ascensore sociale.
In chiave internazionale Piketty mette alla sbarra la presunta superiorità morale dell’Occidente. Certo, Cina o Russia non sono modelli da seguire. Ma l’India, ad esempio, conta un tasso di partecipazione al voto ben più elevato degli Stati Uniti o della stessa Italia. L’Occidente, poi, si è dimostrato abbastanza cinico per fare affari con tutti senza remore morali. Al contrario, spiega l’economista, “dobbiamo puntare a una fiscalità minima da imporre alle multinazionali e alle grandi ricchezze con una redistribuzione del carico in funzione della popolazione e dell’esposizione al rischio climatico”. Molto di più della minimum tax che i Paesi ricchi cercano di imporre alle varie Apple o Amazon. Il principio dovrebbe basarsi sui bisogni dei vari Paesi, a partire dai più poveri, e non sui rapporti fiscali esistenti. Solo così si potrebbe contrastare il fenomeno dell’immigrazione, parete stretto della miseria, dell’assenza di ospedali, scuole e dei principi minimi della vita sociale. Un’utopia? Senz’altro, senza connotazioni negative perché l’utopia è stato uno dei motori della crescita della democrazia.
L’alternativa ce la illustra un altro libro, stavolta dell’americano Kim Stanley che nel suo “Ministero del futuro” ci racconta un’evoluzione da incubo frutto delle diseguaglianze e dell’incapacità di darsi regole per il bene comune: il risultato inevitabile sarebbe un disastro ambientale destinato a colpire il pianeta nei suoi punti più fragili, a partire dall’afa soffocante nel sud del mondo. A quel punto, secondo l’autore, prenderà corpo l’ecoterrorismo in arrivo dai Paesi più poveri, esasperati e malandati, ma abbastanza forti da colpire i jet privati o l’attività dei porti.
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