L’Italia non è un Paese per… infrastrutture. Nel 2021 la spesa per la costruzione e manutenzione di infrastrutture di trasporto ha raggiunto lo 0,5% del Prodotto interno lordo, quasi la metà rispetto a Gran Bretagna (0,9%), Francia (0,9%) e Germania (0,8%). Un ritardo che ha scavato un grande divario nella dotazione di sistemi di trasporto, telecomunicazioni, energia e servizi idrici, che incide sulla competitività del Paese e sulla qualità della vita delle persone.
Adesso, i fondi europei che saranno impiegati tramite il Pnrr permetteranno al Belpaese di realizzare il più grande investimento in opere strategiche della sua storia: circa 125 miliardi di euro nell’arco di dieci anni. Tra i progetti figurano l’alta velocità ferroviaria e le “strade intelligenti”, ma saranno rinnovati o potenziati anche metropolitane, porti, aeroporti e reti idriche.
È una grande sfida, come dimostra il Rapporto “Sussidiarietà e… governo delle infrastrutture”, realizzato dalla Fondazione per la Sussidiarietà (FpS) e come ha sottolineato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Si impone allora una riflessione sugli strumenti per attuare il nuovo ambizioso piano. Sarebbe utile adottare anche in Italia i “modelli collaborativi sussidiari” utilizzati con successo in molti Paesi.
Quello delle infrastrutture è un comparto complesso, sia perché implica diverse fasi chiave: programmazione, progettazione, realizzazione, gestione e manutenzione. Sia perché coinvolge doversi soggetti – pubblici, privati, centrali, locali – con interessi spesso in contrasto tra loro. Questa è la ragione per cui la sussidiarietà, sia verticale (i diversi livelli di governo) che orizzontale (i vari soggetti e il Terzo settore) è da considerarsi il metodo decisivo per governare le infrastrutture.
La carenza di risorse, infatti, è aggravata da una governance complicata e non efficiente, a cominciare dall’incerta distribuzione delle competenze per alcuni importanti ambiti, quali porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, ordinamento della comunicazione: “materie concorrenti” in cui lo Stato deve dettare i principi fondamentali, mentre le Regioni devono stabilire la legge di dettaglio.
Non è difficile immaginare la dialettica che si crea tra centro e periferia su questo tipo di servizi che spesso hanno carattere nazionale e impatto locale.
In occasione di uno di questi conflitti, nel 2003, la Corte Costituzionale inventò la cosiddetta “chiamata in sussidiarietà”, un meccanismo in grado di rendere flessibile l’ordine delle competenze (amministrative e legislative), giustificandone, a certe condizioni, lo spostamento dal livello regionale a quello statale. La Corte richiese che in questi casi venisse rispettato il principio di leale collaborazione, ossia che le Regioni fossero adeguatamente coinvolte nelle decisioni amministrative.
Sussidiarietà significa ricerca delle migliori soluzioni possibili, contro massimalismo e incompetenza; apertura di canali di comunicazione e ascolto e si attua come dialogo continuo e aperto al compromesso tra i diversi livelli di governance e di questi con le realtà di base.
Non bastano quindi leggi e regolamenti, o la sostituzione di un potere preposto con un commissario, per superare il dissenso e offrire una soluzione ai problemi. Occorre affermare e diffondere una cultura sussidiaria, che in definitiva introduce una dimensione di “responsabilità diffusa” nel perseguire il bene comune.
Lo mostrano la diffusione di fenomeni di aperta opposizione. Il Nimby (Not in my back yard), la resistenza da parte delle comunità locali alla realizzazione di infrastrutture o impianti nel loro territorio. E il Nimto (Not in my term of office), la tendenza a non prendere decisioni politiche impopolari durante il proprio mandato elettorale.
Dal Rapporto emerge come solo la condivisione e il coinvolgimento responsabile di tutti i soggetti implicati nei processi decisionali e attuativi può permettere di trovare un punto di equilibrio virtuoso.
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