Non c’è dubbio che tutti – certamente nell’Occidente euramericano ma verosimilmente anche oltre – avrebbero preferito che una “Terza guerra mondiale a pezzi” non giungesse a riportare brutalmente d’attualità l’opportunità del nucleare come fonte d’energia alternativa e la necessità di investimenti massicci in nuovi sistemi di difesa. Però – a quasi due anni dall’aggressione russa all’Ucraina – le conseguenze geopolitiche sono visibili nella loro strutturalità, così come gli impatti sulle economie e sulle politiche economiche. E questa sembra maturare al di là dei diversi sforzi di de-escalation in corso e dei loro esiti, da sempre auspicati e adesso meno improbabili.
Le “lezioni” del 2022-23 – ma prima ancora quelle del 2020-21 nel globo ammalato di Covid – difficilmente potranno essere essere dimenticate o depotenziate: anche se le “normalizzazioni” – in parte solo nominali – sui fronti bellici e su quelli dell’inflazione e dei tassi d’interesse dovessero rivelarsi più veloci di quelle preventivate.
Aggiustare il tiro delle politiche energetiche non significa cancellare la transizione verde assunta come direttrice strategica dal Recovery Plan europeo e dai Pnrr nazionali. Ridare rilievo alle politiche di bilancio e industriali nell’orizzonte “sicurezza e difesa” non vuol dire abrogare l’impegno a favore di una coesistenza geopolitica pacifica sul globo, unita a una competizione economica virtuosa: ciò che in una Costituzione democratica come quella della Repubblica italiana è posto fra i principi fondamentali. Né l’interfaccia fra i due ambiti – quello del rilancio del nucleare e quello del rafforzamento militare – possono continuare a essere giudicati come separati da mura ideologiche: in un mondo un cui l’Iran sta rincorrendo il nucleare (militare) per attaccare Israele, che già ne dispone a fini difensivi. Questo nel Vicino Oriente, mentre il fronte russo-ucraino è in piena Europa come lo era ottant’anni fa.
Appare quindi sempre meno giustificato anche il (pre)giudizio negativo su un Paese che disponga di know-how e tecnologie di frontiera nella costruzione di centrali nucleari (sicure) e di armamenti (efficienti nel difendere). La Francia – che non ha mai spento la sua “macchina” nucleare ed è stata a lungo fuori dalla Nato per essere autonoma nella gestione della propria force de frappe – siede anche per questa ragione, in questi giorni, in posizione di forza relativa al tavolo Ue per la riscrittura delle regole finanziarie: e presenta una situazione di bilancio tutt’altro che sana, solo intermedia fra quella dell’Italia indebitata e quella di una Germania meno frugale di un tempo.
Berlino, d’altronde, è in questi giorni nettamente perdente sia sul fronte energetico che su quello degli impegni – finora solo verbali – ad alzare l’asticella della spesa militare. Non è più il “dominus” europeo che nel 2011 impose all’Italia un’austerity feroce, superata solo da quella decisa quattro anni dopo per la Grecia. E il nostro sistema-Paese non è in ultima fila: né sul versante nucleare, né su quello della difesa.
Su quest’ultimo Leonardo è anzi una multinazionale d’avanguardia: già coinvolta in progetti di frontiera; non ultimo quello che svilupperà un nuovo caccia in partnership con Usa e Gran Bretagna. Il drive energetico impostato da Eni e soprattutto da Enel guarda alla transizione verso fonti rinnovabili. Ma non è certo impreparato a entrare in combinazioni europee o globali per valorizzare una fonte come il nucleare: a un tempo tradizionale, ma altresì innovativa per tutto quanto concerne una gestione delle materie prime e della produzione totalmente rispettosa della sicurezza ambientale. Attorno, la seconda industria europea e non da ultimo alcuni centri di ricerca universitari e avanzati garantiscono già una buona piattaforma.
Le guerre vanno sempre evitate. Ma certamente ciò che non si può mai perdere – assieme a una pace riconquistata – è il dopoguerra economico.
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