Sembra la teoria del caos, quel giochetto intellettuale incomprensibile di cui si beano i fisici teorici per cui il battito delle ali di una farfalla in Amazzonia può scatenare un uragano in Europa.
I dati eccellenti dell’occupazione negli Stati Uniti, congelando le già tiepide intenzioni della Federal Reserve di iniziare a riabbassare i tassi, ingessano qualsiasi eventuale velleità delle “colombe” in seno alla Banca centrale europea di pressare il Consiglio direttivo dell’istituto affinché appunto, preso atto del ripiegare dell’inflazione in Europa, riduca i tassi di riferimento. Macché: i tassi alti sono e alti restano. Fino a nuovo ordine. Cioè, tradotto: fin quando alla Bundesbank passerà la febbre del rigore, finora malattia incurabile delle istituzioni (e forse del popolo) tedesco. Malattia incurabile nonché ipoteca sulla riscrittura del Patto di stabilità all’ordine del giorno in questo momento, con pochissime – per non dire nulle – possibilità di ammorbidire le regole.
Sia chiaro: la vecchia “garrota” finanziaria voluta dall’allora ministro delle Finanze tedesco Schäuble, che imponeva agli Stati indebitati come l’Italia di ridurre del 3% all’anno il rapporto debito/Pil, non sembra poter essere riproposta, tanto strampalata era (e di fatti disapplicata). Lo si deve probabilmente ai guai francesi, che somigliano alla lontana a quelli italiani ma sono della stessa categoria: il rapporto tra debito pubblico e Pil della Francia è di circa il 113% contro il nostro 143%, insomma, i francesi sono ancora dei dilettanti, ma hanno contratto la nostra stessa malattia. Ebbene: il frammentato e disordinato fronte dei Paesi non-filo-tedeschi avrebbe potuto e forse ancora potrebbe allinearsi all’intelligente richiesta del Governo italiano, quella di scorporare dal debito pubblico, ma anche dal deficit e dai suoi effetti sul debito, le spese per investimenti strutturali. Avrebbe significato dare sostanza a quella teoria sul “debito buono” diverso dal “debito cattivo” cara al sempre (e anche troppo) elogiatissimo Mario Draghi, cioè l’idea che investimenti di denaro pubblico capaci di generare crescita solida (e non congiunturale, quindi non il 110%!) non vadano contabilizzati nel debito ma a parte.
Macché: non se n’è fatto niente. Resta in piedi – con la speranza di essere varato in un Ecofin straordinario, tra il 18 e il 21 dicembre prossimo – il piano della presidenza spagnola di turno dell’Ue di dare spazio sì all’aggiustamento strutturale automatico caro ai tedeschi, ma nei limiti dello 0,5% del Pil per chi ha un deficit oltre il 3%… purché deficit “primario”, cioè senza gli interessi pagati sul debito pubblico! Sarebbe una bella trovata che “sventerebbe” la cecità della Bce nel suo ostinarsi a non ridurre i tassi, forse troppo bella per essere vera, perché per esempio il nostro Paese, pur campione di spesa pubblica improduttiva, spreme talmente tanti soldi dalle tasche di quella metà dei contribuenti che non riuscendo a evadere le tasse, le paga, da generare comunque un ricco avanzo primario, altro che deficit. E quindi quella clausola per noi sarebbe un “liberi tutti”: appunto. L’ipotesi sembra troppo bella per essere vera.
A oggi i Paesi cosiddetti “frugali” – satelliti di Berlino – hanno alzato un muro di no contro l’ipotesi, che secondo alcuni gossip potrebbe essere ammorbidita limitando al solo 2024 la clausola della non contabilizzazione nel deficit delle spese per interessi.
Comunque vada, però, stiamo parlando di niente, o quasi, rispetto alla vera sfida su cui l’Europa si gioca la faccia nel mondo, e proprio in un anno – il prossimo, il 2024 – che segna il tristissimo ventesimo anniversario dall’affondamento della Costituzione europea decretato dai “no” vincitori dei referendum francese e olandese.
La vera sfida è quella della transizione energetico-ecologica, sulla quale l’Europa della burocrazia e delle chiacchiere si è spesa tantissimo – emanando regole severe se non severissime -, ma gli Stati membri sono letteralmente in braghe di tela.
Solo per adeguare gli immobili residenziali alle nuove regole della direttiva casa, all’Italia servirebbero 600 miliardi. Non molti di meno a Francia e Spagna, altre due nazioni dalla lunga storia e dagli immobili vecchi. Per avvicinarsi ai target tra edilizia, mobilità, siderurgia e soprattutto filiera energetica – rinnovabili e “cattura” della CO2 – servirebbero migliaia di miliardi, in parte anche privati ma solo in parte: senza incentivi storici, epocali, da Dopoguerra, non se ne uscirà mai. E come pensare che quest’Europa di burocrati e di leader esitanti e delegittimati partorisca un piano epocale?
Un assaggio si è avuto quindici giorni fa, quando la Corte di Karlsruhe, la corte Costituzionale tedesca, ha stroncato con un “Niet” da politburo sovietico il timido tentativo del cancelliere Scholz di devolvere a finalità ecologiche i 60 miliardi risparmiati dai sussidi post-Covid. Macché, hanno tuonato i parrucconi di Karlsruhe, giù le mani: quei soldi restino in cassa. Altro che transizione: questa è una stagnazione.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.