Chi ha i capelli bianchi e buona memoria ricorderà che, negli anni Settanta, era vietato parlare della guerra partigiana come di una “guerra civile”. Eppure, decine di migliaia di italiani si ammazzarono l’un l’altro nei modi più efferati. Il problema era che, ammettendo l’esistenza di una “guerra civile” si rischiava di dare dignità di soggetto agente alla parte fascista mentre era più comodo raffigurarlo come un semplice manutengolo dell’occupante. Ci sarebbe voluto il memorabile saggio di Claudio Pavone dal titolo Una guerra civile: saggio storico sulla moralità della Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991) per scardinare questo tabù. Secondo Pavone le guerre che si svolsero e si intrecciarono in quegli anni furono tre: lotta di liberazione contro l’occupante tedesco, guerra civile contro il fascismo collaborazionista, guerra rivoluzionaria.
Le prime due furono comuni a tutte le componenti della Resistenza, la terza alla sola componente comunista, che la applicò non solo ai fascisti, non solo ai neutrali, ma anche a coloro che combattevano contro i nazifascisti e non erano delle loro stesse idee (cfr. Stefano Contini e Alberto Leoni, Partigiani cristiani nella Resistenza; la storia ritrovata 1943-1945, Ares 2022). In una guerra civile, come in qualsiasi guerra, si tende a dare la responsabilità al nemico di avere iniziato: più o meno come fanno le bande di teppisti nelle risse da strada. Il problema, come vediamo in Ucraina e in Medio Oriente oggi, è che le modalità delle narrazioni dei capi di Stato non sono molto diverse da quelle dei capibanda.
La responsabilità della guerra civile, beninteso, ricade principalmente su Benito Mussolini e sul governo di Salò. Ci si permetta una piccola ucronia: se il pilota del piccolo aereo Fieseler Storch con cui Mussolini fu trasportato dalla prigionia di Campo Imperatore in Germania non fosse stato così abile da recuperare, cabrando, una picchiata verticale subito dopo il decollo, forse la Repubblica Sociale non sarebbe mai nata e tante tragedie sarebbero state evitate. Ma così non fu e il governo della RSI riuscì in pochi mesi a costruire un esercito di molte volte più numeroso di quello organizzato dalla monarchia. Nel governo della Repubblica Sociale, quindi, l’energia non mancava ma era proporzionale a un vizio del fascismo: la mancanza di serietà. Perché non si può spiegare in altro modo il fatto che il 4 novembre 1943, nel corso di un incontro con l’ambasciatore tedesco Rudolf Rahn, Mussolini sia caduto dal pero sentendosi chiedere quando sarebbe stato emesso il bando della coscrizione obbligatoria: una misura che Mussolini, intelligentemente, avrebbe voluto evitare, ben sapendo i guai che ne sarebbero derivati. Era accaduto che il 13 ottobre i capi militari della RSI erano andati a Rastenburg per concordare i dettagli della ricostituzione dell’esercito e avevano firmato i protocolli senza nemmeno leggerli. E così anche Mussolini, convinto che i suoi sottoposti li avessero letti, non si prese la briga di esaminarli, reiterando la faciloneria con cui lui stesso e Ciano, nel 1939, avevano approvato le condizioni del Patto d’acciaio che avrebbe portato l’Italia alla rovina. Con il bando di coscrizione iniziò il fenomeno della resistenza alla leva che andò ad ingrossare le sparute formazioni partigiane.
Va anche detto che in molti, da una parte e dall’altra, cercarono di evitare la guerra fratricida, ma la logica della guerriglia e della rappresaglia ebbero la meglio sulle componenti moderate: un fenomeno che ancora oggi vediamo presente nelle guerre che si combattono sotto i nostri occhi. Per fare un po’ di Storia e dare la possibilità a chi legge di fare una scelta è necessario partire da dati oggettivi, per quanto anch’essi parziali, ma che possono dare la misura di quante fossero le vittime fasciste e partigiane.
Innanzitutto va premesso che da settembre a dicembre 1943 furono i nazisti a compiere gran parte degli eccidi in Italia e questo tenendo presente che il movimento partigiano era ancora ben poco sviluppato. I soldati tedeschi iniziarono a fare stragi tra la popolazione civile già in Sicilia quando l’Italia era alleata: 86 le vittime in 25 episodi. In settembre le vittime furono 1.067 di cui 652 civili (73 tra ragazzi e bambini e 109 donne). In ottobre le vittime furono 1.475 di cui 1.224 civili (128 tra ragazzi e bambini e 152 donne). In novembre la cifra scese bruscamente con 408 vittime di cui 357 civili, mentre in dicembre i morti furono 457 di cui 285 civili. Questo per certificare la brutalità dell’occupazione tedesca e per far comprendere ai nostalgici che le motivazioni dei partigiani non erano così peregrine e ideologiche.
Per quanto riguarda i fascisti, inizialmente la persecuzione degli oppositori fu relativamente incruenta. Il primo partigiano arrestato, ferocemente torturato e ucciso, risulta essere il ferroviere socialista Ottavio Carcereri, assassinato a Verona il 29 settembre 1943. Dopo di allora in ottobre vi furono una ventina di uccisi attribuibili a fascisti da soli o in collaborazione coi tedeschi; in novembre le vittime furono 48 e in dicembre 61.
Tali dati vanno confrontati con quanto risulta dall’Albo caduti e dispersi della repubblica Sociale Italiana a cura di Arturo Conti e pubblicato dalla Fondazione della RSI – istituto storico Onlus. Pur precisando che si tratta di un calcolo approssimativo, escludendo Friuli e Istria dove vi furono centinaia di vittime ad opera dei partigiani titini, i morti fascisti per agguato, imboscata o fucilazione furono 19 in settembre, 32 in ottobre, 59 in novembre e 95 in dicembre quando ormai la guerriglia stava diventando generalizzata.
Era un’escalation che vide protagonisti i Gruppi di Azione Partigiana, fondati dal Partito Comunista e il cui obbiettivo era di radicalizzare lo scontro e di evitare l’attendismo. Si innescò, così, un ciclo di attentati che, qualora fossero commessi nei confronti di gerarchi fascisti, provocò rappresaglie cieche e furibonde, radicalizzando lo scontro e rendendolo sempre più spietato. A Brescia, la sera del 13 novembre 1943 una bomba a mano uccideva un caposquadra della Guardia nazionale repubblicana. La vendetta fascista si abbatté su oppositori del regime come Arnaldo dell’Angelo e Rolando Pezzagno, ma una terza vittima, Guglielmo Perinelli, di 61 anni, venne arrestato perché i fascisti avevano sbagliato indirizzo. Anche Perinelli sarà assassinato in piazza della Loggia.
Pur considerando il clima di violenza, gli storici concordano nel considerare la strage del castello Estense a Ferrara come l’inizio della guerra civile. Il federale di Ferrara, Igino Ghisellini, pluridecorato e veterano di tre guerre, stava perseguendo una strategia di pacificazione incontrandosi con rappresentanti locali antifascisti come Pasquale Colagrande del Partito d’Azione e Mario Zanatta. Il 13 novembre Ghisellini partì per partecipare al congresso di Verona e non arrivò mai a destinazione. Si sospetta che avesse dato un passaggio a qualcuno che poi lo trucidò con un colpo alla nuca. La reazione del Congresso fu furibonda e violenta come c’era da aspettarsi. Il gerarca Enrico Vezzalini venne inviato a prendere il posto del federale ucciso e a organizzare la rappresaglia. La sera del 15 novembre, davanti al castello Estense, undici condannati furono mitragliati dai fascisti e i loro cadaveri lasciati insepolti come monito alla popolazione. È utile capire chi fossero queste vittime e perché fossero state uccise. Di due di essi, Mario e Vittore Hanau, si può dire che la loro unica colpa fosse di essere ebrei; Ugo Teglio era ebreo e antifascista; Emilio Arlotti era un ex fascista che non aveva aderito alla Repubblica Sociale; Cinzio Belletti era stato arrestato da una pattuglia quella mattina; Alberto Finzi, malgrado il cognome, non era ebreo; Arturo Torboli aveva liquidato enti e amministrazioni fasciste ed era, per questo, assai odiato. Infine, vi erano quattro esponenti antifascisti: Pasquale Colagrande, Giulio Piazzi, Gerolamo Savonuzzi e Mario Zanatta. Proprio Colagrande e Zanatta avevano accettato di interloquire con Ghisellini. Così, in un colpo solo, coloro che avevano cercato la pacificazione, dall’una e dall’altra parte furono tolti di mezzo, e va ricordato, inoltre, che alcuni autorevoli storici ipotizzano che l’omicidio di Ghisellini sia stato commesso da fascisti oltranzisti.
(1 – continua)
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